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Nei suoi momenti più accesamente dostoievskiani, David Selig amava pensare al suo potere come a una maledizione, una punizione selvaggia per un qualche peccato immaginario. Il marchio di Caino, forse. È certo che la sua particolare abilità gli aveva procurato un sacco di guai, ma nei momenti più equilibrati sapeva che definirla una maledizione era un’idiozia, pura e melodrammatica autoindulgenza. Il potere era un dono divino. Il potere portava all’estasi. Senza il potere lui non era niente, zero; con esso, era un dio. E questa sarebbe la maledizione? È una cosa così terribile? Qualcosa di curioso succede quando gamete incontra gamete, e il destino urla: vieni qui, Bambino-Selig: sii un dio! Tu disprezzeresti questo? Sofocle, a 88 anni più o meno, esprimeva il suo grande sollievo per essere sopravvissuto agli stimoli delle passioni fisiche. Alla fine mi sono liberato da un padrone tirannico, diceva quel saggio felice. Potremmo mai immaginare che Sofocle (se Zeus gli avesse offerto la possibilità di modificare, in senso retroattivo, l’intero corso della sua vita) avrebbe scelto un’impotenza lunga quanto tutta la sua esistenza? Non raccontare storie a te stesso, David: non importa se la telepatia ti ha fatto qualche brutto tiro, e te ne ha fatto di sporche. Senza, non ce l’avresti fatta neanche per un minuto. Perché il potere ti portava all’estasi.
Il potere portava all’estasi. Tutto il succo del problema in una sola frase incisiva. I mortali sono nati in una valle di lacrime e prendono il piacere dove possono. C’è chi, alla ricerca del piacere, si rivolge al sesso, alle droghe, all’ubriachezza, alla televisione, al cinema, al gioco, alla borsa, alle corse, alla roulette, al sadomasochismo, a raccogliere le prime edizioni, alle crociere nei Caraibi, all’oppio, ai poeti anglosassoni, abiti di gomma, calcio professionistico e così via. Non lui, non il maledetto David Selig. Tutto quello che lui doveva fare era starsene tranquillamente seduto con i suoi sensi aperti, e assorbire le ondate di pensiero portate dalla brezza telepatica. Con la più grande facilità viveva un centinaio di vite alternative. Rimpinzava la sua cassaforte con il bottino di un migliaio di anime. Estasi. Naturalmente, i momenti d’estasi appartenevano ormai quasi tutti al passato.
Gli anni migliori erano stati quelli tra i quattordici e i venticinque. Prima di allora era ancora troppo ingenuo, troppo disinformato, per trarre soddisfazione dai dati che ricavava. Poi, fattosi più vecchio, il suo crescente senso di amarezza, l’aspro senso di isolamento, avevano spento la sua capacità di gioirne. Dai quattordici ai venticinque, dunque. Gli anni d’oro. Ah!
Era tutto straordinariamente più vivido allora. La vita era come un sognare da svegli. Non c’erano barriere al mondo; poteva andare dove voleva e vedere tutto quello che voleva. L’intenso aroma dell’esistenza. Immerso nei forti succhi della percezione. Selig non si era reso conto, non prima di aver passato i quaranta, di quanto aveva perduto, negli anni, la sua capacità di mettere a fuoco la sua profondità di campo. Il potere non aveva cominciato a diminuire in maniera sensibile prima che lui fosse già nella trentina inoltrata, ma ovviamente doveva essersi spento per tappe graduali negli anni della sua maturità, deperendo così gradatamente da lasciarlo ignaro della perdita complessiva. Anche in un giorno di quelli buoni, adesso, la ricettività non riusciva più ad avvicinarsi all’intensità dei giorni che lui ricordava nella sua adolescenza. In quegli anni remoti il potere gli aveva portato non soltanto frammenti di conversazione sub-cranica e brandelli separati di anima, come adesso, ma anche uno sfarzoso universo di colori, trame, odori, spessori: il mondo visto attraverso un’infinità di altri agganci sensoriali, il mondo catturato e goduto per la sua gioia nel limpido raggiante sferico riparo dentro la sua mente.
Per esempio. Lui è appoggiato contro un pungente mucchio di fieno — è agosto — in un infuocato paesaggio alla Brueghel; è appena dopo mezzogiorno. È il 1950 e lui è lì, sospeso, tutto tranquillo, tra il quindicesimo e il sedicesimo anno di vita. Qualche effetto sonoro, maestro: la sesta di Beethoven, che zampilla su piano piano, morbidi flauti e giocosi ottavini. Il sole ciondola in un cielo senza nubi. Un leggero venticello agita i salici attorno al campo di grano. Il frumento giovane trema. Il ruscello gorgoglia. Uno storno gli gira sopra la testa. Sente i grilli. Ode il ronzio di una zanzara, e osserva con calma come sparisce sul suo petto nudo, privo di peli, lucido di sudore. Anche i suoi piedi sono nudi; indossa soltanto un paio di blue-jeans attillati, scoloriti. Il ragazzo di città che si immerge nella campagna.
La fattoria si trova nei Catskill, 12 miglia a nord di Ellenville. È di proprietà degli Schiele, una tribù di bronzei teutoni, che producono uova e un assortimento di vegetali, e che integrano, ogni estate, i loro introiti affittando la casa a qualche famiglia di ebrei di città in cerca di sollievo rurale. Quest’anno gli ospiti sono Sam e Annette Stein di Brooklyn, New York, e la loro figlia Barbara. Gli Stein hanno invitato i loro amici, Paul e Martha Selig, a passare una settimana nella fattoria con il figlio David e la figlia Judith. (Sam Stein e Paul Selig stanno macchinando un piano d’affari destinato a svuotare definitivamente i loro conti in banca e a distruggere l’amicizia che esiste tra le due famiglie, quello di mettersi in società e lavorare come grossisti in pezzi di ricambio per set televisivi. Paul Selig ha già tentato in passato alcune avventure d’affari per niente sagge). Oggi è il terzo giorno della visita, e questo pomeriggio, misteriosamente, David si ritrova completamente solo. Suo padre è uscito per la sua escursione quotidiana in aperta campagna con Sam Stein: nella serenità delle colline, del resto vicinissime, studieranno i dettagli della loro unione commerciale. Le rispettive mogli sono andate via in macchina, portando con sé Judith, di cinque anni, a fare un giro per i negozi di oggetti antichi a Ellenville. Non c’è nessuno, fatta eccezione per i silenziosi Schiele che si muovono tenebrosamente attorno ai loro lavori quotidiani, e la sedicenne Barbara Stein, che è stata compagna di classe di David dalla terza elementare per tutta la scuola media. Per amore o per forza, li hanno lasciati insieme quel giorno. Evidentemente gli Stein e i Selig covano l’inespressa speranza che sboccerà qualche idillio tra la loro prole. È molto ingenuo da parte loro. Barbara, una succosa e ragionevolmente appetitosa morettina, dalla pelle morbida e dalle lunghe gambe, sofisticata e sussiegosa, ha sei mesi più di David ma è più avanti di tre o quattro anni rispetto a lui come sviluppo sociale. A lei in realtà lui non dispiace, però lo considera strano, sconcertante, alieno. Lei non sa niente del suo dono speciale, nessuno ne sa niente, e lui s’è ben guardato dall’informarla. Lei comunque ha avuto a disposizione sette anni per osservarlo da vicino, e sa che in lui c’è qualcosa di strano. È una ragazza convenzionale, assolutamente destinata a sposarsi presto (un dottore, un avvocato, un agente assicurativo) e ad avere un bel mucchio di frugoletti, e le possibilità che sbocci un idillio tra questa ragazza e qualcuno dall’anima oscura, strano come David Selig, sono proprio ridottissime. David lo sa molto bene e non è per niente sorpreso, e tanto meno spaventato, quando Barbara se ne va via a metà mattina. — Se qualcuno mi cerca — dice lei — di’ che sono andata a fare quattro passi nel bosco. — Porta con sé un’antologia di poesia in brossura. David non si lascia imbrogliare. Lui sa che va a farsi chiavare dal diciannovenne Hans Schiele tutte le volte che le riesce.
Così ora è abbandonato ai suoi personali passatempi. Non c’è problema. Lui ha i suoi modi per divertirsi. Gli piacerebbe dare un’occhiata alla fattoria, per un po’, sbirciando nel pollaio e dando un’occhiata alla mietitrebbia; poi sistemarsi in un qualche angolino tranquillo nei campi. È l’ora delle proiezioni mentali. Pigramente lancia la sua rete. Il potere si alza e cresce, alla ricerca di emittenti. Che cosa leggerò, che cosa leggerò? Ah. Un senso di contatto. La sua mente esploratrice ha preso al laccio un’altra mente, tutta affannata, piccola, indistinta, intensa. È la mente di un’ape: David non è limitato a contatti con gli umani. Naturalmente dall’ape non provengono emissioni verbali e neppure emissioni concettuali. Se l’ape ha qualche forma di pensiero, David è incapace di percepirla. Lui, però, può introdursi nella testa di un’ape. Quella che prova è una forte sensazione, come sentirsi sottile e compatto, alato e coperto di peluria. Com’è