In quegli anni fu sempre così: un viaggiatore senza limiti, uno sfarzoso voyage. Però i poteri declinano. Il tempo sbianca i colori sulle visioni più belle. Il mondo si fa sempre più grigio. L’entropia ci butta giù. Tutto svanisce. Tutto se ne va. Tutto muore.
13
L’oscuro, sconnesso appartamento di Judith è pieno di odori sgradevoli. La sento in cucina affaccendata, mentre rovescia spezie nella pentola: pepe piccante, origano, aceto aromatico, chiodi di garofano, aglio, senape in polvere, olio di sesamo, polvere di radice di curcuma, e Dio solo sa cos’altro. Il fuoco è acceso e il calderone gorgoglia. La sua famosa salsa piccante per gli spaghetti è in lavorazione, un miscuglio formato da componenti misteriosi, in parte di ispirazione messicana, in parte di provenienza cinese provincia dello Szechwan, in parte di Madras, in parte pura invenzione di Judith. La mia infelice sorella in effetti non è proprio il tipo della donna di casa, ma i pochi piatti che riesce a cucinare li fa straordinariamente bene, e i suoi spaghetti sono famosi su tre continenti; sono convinto che ci siano uomini che vanno a letto con lei soltanto per avere il privilegio di cenare qui.
Sono arrivato inaspettatamente presto, mezz’ora prima del tempo fissato per l’appuntamento, cogliendo Judith impreparata, non ancora vestita; perciò me ne sto per mio conto mentre lei prepara la cena. — Versati da bere — mi grida. Vado alla credenza e mi verso un cicchetto di rum scuro, poi entro in cucina per prendere i cubetti di ghiaccio. Judith, tutta eccitata, con indosso una vestagliela, gira qui e là furiosamente, scegliendo le spezie con il fiato sospeso. Lei fa tutto con frenesia. — Sono da te in dieci minuti — mi dice tutta affannata, mentre cerca il macinino del pepe. — Il piccolo fa troppo fracasso per te?
Allude a mio nipote. Si chiama Paul, in onore di nostro padre, che Dio lo abbia in gloria. Lei però non lo chiama mai per nome, ma soltanto "il bimbo", "il piccolo". Ha quattro anni. Figlio di un divorzio, destinato a essere sempre teso come sua madre. — Non mi infastidisce per niente — la rassicuro, e ritorno nel soggiorno.
L’appartamento è uno di quelli vecchi, immensi del West Side, spaziosi e con i soffitti alti, che portano con sé un’aura di distinzione intellettuale per il semplice fatto che un gran numero di critici, poeti, drammaturghi e coreografi hanno vissuto in case simili, proprio da quelle parti. Un soggiorno enorme con tante finestre che danno su West End Avenue; una sala da pranzo protocollare; una grande cucina; una camera da letto da signori; la camera del bambino; la camera per la domestica; doppi servizi. Tutto questo per Judith e il suo cucciolo. L’affitto è alle stelle, però Judith riesce a farvi fronte. Prende molto più di mille dollari al mese dal suo ex, e guadagna, di proprio, un modesto ma decente stipendio per vivere come curatrice e traduttrice; oltre a questo ha alcune piccole entrate da un portafoglio di titoli azionali, abilmente scelti per lei, alcuni anni fa, da un suo amante di Wall Street, e che comperò con la sua parte di eredità. I nostri genitori si erano sorprendentemente rivelati grossi risparmiatori. (La mia parte se ne andò nel ripulirmi dai debiti accumulati; il tutto si liquefece come la neve a giugno). L’appartamento è ammobiliato metà alla Greenwich Village 1960 e metà alla Urban Elegance 1970, lampade ad asta scure, sedie di corda grigie, scaffali per i libri in mattonato rosso, stampe a buon mercato, bottiglie di Chianti sigillate a cera da una parte; divano in pelle, ceramiche Hopi, psichedelici paraventi in seta, tavolini da caffè con i buchi per i bicchieri, giganteschi cactus in vaso. Le sonate per clavicembalo di Bach risuonano dal sistema di amplificazione da mille dollari. Il pavimento, nero ebano e brillante come uno specchio, scintilla attraverso tappeti lussureggianti, spessi. Una pila di tascabili dai dorsi tutti malconci ingombra una parete. Davanti ci sono due casse di legno non ancora aperte, grezze, vino appena arrivato dal suo fornitore. Mia sorella fa una bella vita qui. Bella e miserabile.
Il piccolino mi fissa senza fiducia. È seduto a sei metri da me, accanto alla finestra; sta baloccandosi con un intricato giocattolo di plastica, però tiene gli occhi incollati su di me. Un bambino difficile da capire, esile e teso come sua madre, che si tiene alla larga, freddo. Non c’è mai stata una gran simpatia reciproca tra noi: io sono stato nella sua mente e so che cosa pensa di me. Per lui sono uno dei tanti uomini che ci sono nella vita di sua madre, non sono un vero zio, non sono diverso dagli innumerevoli zii-presi-a-nolo sempre prima di andare a letto; ritengo che lui pensi proprio che io sia uno dei suoi amanti che si fa vivo più spesso degli altri. Un errore comprensibile. Però mentre lui è risentito con gli altri semplicemente perché sono suoi concorrenti nell’affetto di lei, considera me con freddezza perché è convinto che io abbia causato dei dispiaceri a sua madre: è per amore di lei che non gli vado a genio. Con quanta acutezza ha individuato quell’intrecciarsi di ostilità, vecchio di decenni, e di tensioni che configura e definisce la mia relazione con Judith! Dunque sono un nemico. Se potesse mi farebbe la pelle.
Centellino il mio bicchierino, ascolto Bach, sorrido senza sincerità al piccolino, e aspiro l’aroma della salsa per gli spaghetti. Il mio potere praticamente è in riposo; qui non tento granché di servirmene, e comunque oggi la sua incisività è fiacca. Dopo un po’ Judith emerge dalla cucina e, attraversando sparata il soggiorno, dice: — Vieni a parlare con me mentre mi cambio, Duv. — La seguo nella camera da letto; lei riprende gli abiti nel bagno lì vicino, lasciando la porta aperta soltanto qualche centimetro. L’ultima volta che l’ho vista nuda aveva sette anni. Dice: — Sono contenta che tu abbia deciso di venire.
— Anch’io.
— Però sembri molto giù.
— È soltanto fame, Judith.
— Saremo a tavola tra cinque minuti. — Rumore di acqua che scorre. Lei dice qualcos’altro, ma lo scolo del lavandino lo soffoca. Mi guardo pigramente intorno nella camera da letto. Una camicia bianca da uomo, troppo grande per Judith, è appesa alla maniglia dell’armadio a muro. Sul comodino ci sono due libri, due grossi manuali, o così sembra: Neuroendocrinologia analitica e Studi sulla fisiologia della termoregolazione. Letture improbabili per un tipo come Judith. Forse è stata incaricata di tradurli in francese. Osservo che sono copie nuove, sebbene un libro sia stato pubblicato nel 1964 e l’altro nel 1969. Sono ambedue dello stesso autore: K.F. Silvestri, dottore in medicina e in filosofia.