— Ti sei iscritta a una scuola di medicina? — chiedo.
— Parli dei libri? Sono di Karl.
Karl? un nome nuovo. Dottor Karl F. Silvestri. Mi attacco leggermente alla sua mente e ne estraggo l’immagine di lui: un uomo alto vigoroso dalla faccia grave, spalle larghe, un mento forte con la fossetta, una zazzera fluente di capelli grigi. Sulla cinquantina, da quel che posso giudicare. Judith va sempre a scovare uomini piuttosto vecchi. Mentre le leggo nel pensiero lei mi parla di lui. Il suo "amico" del momento, l’ultimissimo "zio" del piccolino.
È un importante pezzo grosso al Centro Medico della Columbia, una vera autorità in fatto di corpo umano, il corpo di Judith compreso, presumo. Divorziato da poco, dopo 25 anni di matrimonio. Ah! A lei piace prenderli al volo al momento del rimbalzo. Lo ha incontrato tre settimane fa attraverso un amico comune, uno psicanalista. Si sono visti soltanto quattro o cinque volte; lui è sempre occupatissimo: riunioni di comitato in questo o in quell’ospedale, seminari, consulti. Non è passato molto tempo da quando Judith mi diceva che era a corto di uomini, forse senza uomini completamente. Evidentemente no. Deve essere un fatto serio se lei sta provando a leggere i suoi libri. A me paiono assolutamente tabù, tutti schemi e tavole statistiche e una pesante terminologia latinizzata.
Lei esce dal bagno indossando un lucido completo color porpora, e gli orecchini di cristallo che le ho regalato per il suo ventinovesimo compleanno. Quando le faccio visita tenta sempre di ricorrere a qualche piccolo tocco sentimentale per tenerci uniti; questa sera è la volta degli orecchini. La nostra amicizia, di questi tempi, è di qualità piuttosto fragile, mentre attraversiamo in punta di piedi, senza far rumore, il giardino dove giace sepolto il nostro antico odio. Ci abbracciamo, una stretta da fratello e sorella. Un profumo piacevole. — Salve — dice lei. — Mi spiace di essermi fatta trovare in disordine quando sei arrivato.
— È colpa mia. Era troppo presto. Ad ogni modo, non eri affatto in disordine.
Mi conduce in soggiorno. Si tiene bene. Judith è una bella donna, alta ed estremamente esile, con un aspetto esotico, capelli neri, carnagione scura, zigomi sporgenti. Il tipo snello focoso. Ritengo che sia considerata molto sexy, se si prescinde dal fatto che c’è qualcosa di crudele nelle sue labbra sottili e nei suoi occhi bruni guizzanti, e che quella crudeltà, che è aumentata in questi anni di divorzio e di scontentezza, allontana la gente. Ha avuto amanti a decine, all’ingrosso, però ha avuto ben poco amore. Tu e io, sorellina, tu e io. Goccioline d’acqua.
Prepara la tavola mentre io vuoto un bicchierino per lei, il solito, Pernod con ghiaccio. Il piccolo, grazie a Dio, ha già mangiato; odio vederlo a tavola. Gioca col suo affare di plastica e mi concede occasionali occhiate acide. Judith e io facciamo tintinnare insieme i nostri bicchieri, un gesto teatrale. Lei abbozza un sorriso senza calore. — Alla salute — diciamo. Alla salute.
— Perché non ritorni in città? — chiede lei. — Potremmo vederci più spesso.
— Là la vita costa meno. Che bisogno c’è di vederci più spesso?
— Chi abbiamo di altri?
— Tu hai Karl.
— Io non ho né lui né nessun altro. Ho soltanto il mio piccino e mio fratello.
Ripenso a quando tentai di ammazzarla nella sua culla. Lei non ne sa niente. — Noi siamo veramente amici, Jude?
— Adesso lo siamo. Finalmente.
— Non siamo stati eccessivamente entusiasti l’uno dell’altra, in tutti questi anni.
— La gente cambia, Duv. Cresce. Io ero stupida, proprio una testa di cazzo, così mi ero ficcata in testa che non potevo far nient’altro che odiare tutti quelli che mi stavano intorno. Adesso è tutta acqua passata. Se non mi credi, leggimi nel pensiero e vedi da te stesso.
— Tu non hai bisogno che io vada a frugare là dentro.
— Avanti! — dice lei. — Dacci un’occhiata come si deve e renditi conto se io non sono cambiata nei tuoi riguardi.
— No. Preferisco di no. — Mi servo un altro goccio di rum. La mano trema un po’. — Non devi dare una controllatina alla salsa per gli spaghetti? Può darsi che bolla troppo.
— Lasciala bollire. Non ho finito il mio bicchierino. Duv, sei ancora turbato? Riguardo al tuo potere, voglio dire.
— Sì. Ancora. Peggio che mai.
— Che cosa pensi che stia succedendo?
Scrollo le spalle. Spensierato vecchione che non sono altro. — Sto perdendolo, ecco tutto. È come per i capelli, penso. Ne hai un mucchio quando sei giovane, poi sempre meno, sempre meno, e alla fine resti pelato. Al diavolo! Non mi ha mai procurato niente di buono.
— Non lo pensi veramente.
— Fammelo vedere tu, Jude, qualcosa di buono che mi abbia dato.
— Ti ha reso diverso. Ti ha reso unico. Tutte le volte che qualcosa di qualunque genere era sbagliata per te, tu hai sempre potuto sottrartici proprio grazie a lui, la conoscenza che tu potevi procurarti direttamente dalle menti, perché tu potevi vedere l’invisibile, perché tu potevi accostarti, vicinissimo, all’anima della gente. Un dono di Dio.
— Un dono inutile. Eccettuato quando mi sono trovato in caso di necessità.
— Ti ha reso un uomo più ricco. Più complesso, più interessante. Senza, saresti stato uno qualunque.
— Grazie al potere, ho finito per essere uno qualunque. Un nessuno, uno zero. Senza il potere avrei potuto essere una felice nullità, invece che una nullità depressa.
— Tu, Duv, provi un mucchio di compassione per te stesso.
— Ho le mie buone ragioni per provare compassione di me stesso. Dell’altro Pernod, Jude?
— No, grazie. Devo dare un’occhiata alla cena. Vuoi versare il vino?
Lei se ne va in cucina. Io mi interesso del vino; poi porto in tavola l’insalatiera. Dietro di me il piccolo comincia a cantare dei canzonatori monosillabi senza senso nel suo baritono bizzarramente adulto. Anche nel mio attuale stato di ingannevole intorpidimento sento la pressione del freddo odio del piccolo contro la mia nuca.
Judith ritorna con in mano un vassoio pieno zeppo: spaghetti, pane biscottato con burro e aglio, formaggio. Mi lancia un caldo sorriso, vistosamente sincero, quando ci sediamo a tavola. Facciamo tintinnare i bicchieri di vino l’uno contro l’altro. Mangiamo in silenzio per qualche minuto. Apprezzo gli spaghetti. Alla fine, lei dice: — Duv, posso leggerti un po’ nel pensiero, adesso?
— Sii la benvenuta.
— Dici di essere contento che il potere se ne va. Tutta questa messinscena è per me o per te? Perché tu stai facendo fesso qualcuno, qui. Tu odii l’idea di perderlo, non è così?
— In parte.
— Moltissimo, Duv.
— Va bene, moltissimo. Sono diviso tra due sentimenti. Mi piace che sparisca completamente. Cristo, vorrei non averlo mai avuto. Ma, d’altro canto, se lo perdo, io chi sono? Dov’è la mia identità? Io sono Selig. Quello-che-legge-le-menti, non è così? Lo Stupefacente Uomo della Mente. Perciò se lo perdo… capisci, Jude?
— Capisco. Ti si legge la sofferenza in faccia. Mi spiace tanto, Duv.
— Di che cosa?
— Che tu stia perdendolo.
— Disprezzavi la mia faccia tosta quando lo usavo su di te, non è così?
— È un’altra faccenda. Era tanto tempo fa. Capisco che cosa stai attraversando adesso. Hai qualche idea del perché lo stai perdendo?
— No. Una funzione dell’invecchiamento, penso.
— C’è qualcosa che può averlo fatto arrestare?
— Ne dubito, Jude. Anzitutto io non so neppure perché ce l’ho, il dono: figurati se posso sapere come rinvigorirlo. Non so come funziona. È qualcosa che è nella mia mente, una stramberia genetica, una cosa con cui sono nato, come le lentiggini. Se le tue lentiggini cominciano a scomparire, riesci a immaginarti una qualche maniera per farle restare, ammesso che tu lo voglia?