Quando il Sole si levò, lo videro prima di tutti coloro che Jackson conosceva, perché erano in cima all’orlo del suo mondo.
Jackson era gelato. Doveva tenere le palpebre socchiuse. Sentiva un dolore fortissimo al naso e negli orecchi. Vide che i suoi indumenti erano fatti di pelli umane cucite insieme, e per un minuto si lasciò vincere dalla paura e dalla furia, ma poi ricordò la bolla d’amsir che aveva gettato via, e si disse che non aveva molta importanza. O forse l’aveva, ma non adesso.
«Affrettati. Morirai, qui, ma non manca molto prima di arrivare a una certa… comodità».
Jackson socchiuse gli occhi e guardò davanti a sé. E vide un altro grande mondo a forma di piatto. Ma questo era verdazzurro da un orlo all’altro: la terra era divisa da steccati leggeri come corde tese. C’erano alte case su palizzate, che luccicavano rosee e ocra e azzurre, giallovive e verdi, e gettavano riflessi nella luce del sole. Linee merlettate, fragili come gli steccati, andavano da una casa all’altra, ondeggiando in archi liberi, e univano l’intera città in una sorta di rete. E al centro di quel mondo, lontano, poté scorgere una Spina. Una Spina alta, massiccia, rilucente, non la cosa tozza, inclinata, striata di ruggine sotto la quale lui era nato. Una trama incantata di griglie s’intrecciava nell’aria intorno alla vetta. E dovunque, gli amsir volteggiavano, caprioleggiavano, giocavano nell’aria del primo mattino.
Aria. Densa, limpida e lucente, si tese per avvilupparlo quando l’amsir lo spinse avanti.
Ariwol!, pensò Jackson, Ariwol, in nome di tutta la devozione! Inarcò la schiena e guardò di nuovo il cielo. Gridano e cantano e ridono, pensò. Ma non ti vedo, Red.
CAPITOLO 7
I
«Dovrai scendere», disse l’amsir, mostrando a Jackson un punto dell’orlo, dove si scorgeva qualcosa che sembrava un sentiero. «Puoi lasciare qui quella roba. Verranno a prenderla».
Jackson lasciò cadere la roba a terra e quando l’amsir, con fare negligente, gli toccò con la punta del giavellotto la calotta di ferro, Jackson si tolse anche quella, e la depose sul mucchio. Gli restavano soltanto il dardo, ancora incastrato nella giuntura del gomito sinistro, e il laccio emostatico di pelle umana. Alzò le spalle e cominciò a scendere. Per arrivare sul fondo c’era un dislivello sei o otto volte maggiore della sua statura.
L’amsir fece qualcosa che doveva dargli un grande piacere. Si lanciò da una punta dell’orlo, piegò le ali a coppa, e volteggiò trionfalmente, in modo da poter continuare a tener d’occhio Jackson mentre scendeva. Di tanto in tanto batteva le ali un paio di volte, con eleganza, per non precipitare troppo rapidamente.
Per Jackson, la discesa non era altrettanto piacevole. Doveva arrangiarsi con una mano sola, e molto spesso era costretto a puntellarsi con la faccia o il petto nella ghiaia, per non scivolare. Un maledetto guaio, no?
Cominciò a imbattersi in chiazze della bella sostanza verdazzurra che aveva visto riempire il fondale di quel mondo, fino all’orlo. Era molliccia e fragile. Si frantumava e gli aderiva alla mano e al corpo, quando lui strusciava contro le rocce su cui cresceva. Aveva un odore forte, come la pasta per pane invecchiata, e si staccava in minuscole foglioline. Jackson non aveva mai visto nulla di simile. Sebbene dall’alto dell’orlo sembrasse bellissima, laggiù somigliava molto a qualcosa che avesse fatto vomitare qualcuno.
Scese sul fondovalle piatto, con una torsione che lo lasciò appoggiato contro le rocce, alla base dell’orlo. Da lì, c’era soltanto un declivio dolce per una dozzina di dozzine di lunghi balzi, e poi il terreno si appiattiva. Già da quell’angolo, la vista della Spina degli amsir era ostruita quasi completamente dalle case sulle palafitte. Così, la città sembrava un po’ diversa, meno dispersa e piuttosto affollata.
L’avambraccio sinistro e la mano stavano diventando di un bianco violaceo. L’amsir scese leggero a pochi passi da lui, quando si fermò per allentare il laccio sopra il gomito e si chinò a guardare il sangue che sgorgava intorno al dardo. Tentò di muovere le dita. Poi usò la mano destra per premere sulle dita rigide. Dopo un poco, riuscì ad accostare leggermente il pollice e l’indice. E gli cominciavano a dare l’impressione che li stesse tenendo sul fuoco. Strinse di nuovo il laccio di pelle.
L’amsir chiese, incuriosito: «Quanto tempo ci vorrà perché guarisca?».
«Non so. Molto tempo, credo. Te lo saprò dire dopo che qualcuno mi avrà aiutato a estrarre il dardo».
«Noi abbiamo gente capace di farlo. Ma non intendevo dire quanto ci vorrà prima che ritorni perfetto. Secondo la tua esperienza, entro quanto tempo potrà riprendere a funzionare?».
«Senti, non lo so. Sei, nove giorni. Forse dodici. Forse tre».
«Tre…», ripeté pensieroso l’amsir. Squadrò Jackson dalla testa ai piedi. «Non prima?».
«Senti, te l’ho detto…». Jackson s’interruppe e desistette. La gente non credeva mai a niente che non avesse toccato con mano, e l’amsir non aveva un dardo nel gomito. L’amsir se ne stava lì, con le trine a svolazzargli intorno nella brezza che saliva verso l’orlo, lungo il pavimento del mondo, e svaniva su per le rocce. Jackson si accorse che qualcosa era cambiato, nella faccia dell’amsir: vide che c’erano due aperture corrugate, dove sarebbero state le narici di un uomo se il suo labbro superiore fosse stato il becco di un amsir. E sentiva l’aria che usciva ed entrava, sibilando. L’amsir era sopravvento rispetto a lui e, adesso che l’aveva notato, Jackson sentiva l’odore dell’aria vecchia che fuoriusciva dalle bolle pettorali.
«Vieni», disse l’amsir, con un movimento del giavellotto. «Non abbiamo tempo da perdere. Devi andare alla torre». Indicò con le punta di un’ala. Jackson capì che si riferiva alla Spina. «Dovrai camminare attraverso i campi», disse l’amsir, lanciandosi nell’aria per volteggiare guardingo intorno a Jackson. «Noi non facciamo strade».
Voi non fate molti prigionieri, pensò Jackson. È davvero un gran giorno.
Si fermarono brevemente, una volta, alla più vicina delle case su palafitte. Era fatta di una sostanza dura come il corno, ma tutta scalfita e vecchissima: sembrava che un tempo avesse avuto una quantità molto maggiore di particelle di quel suo colore giallovivo. L’amsir si lanciò più in alto, si aggrappò a una delle sporgenze con gli artigli e una mano. Poi alzò l’altra mano e tirò il cerchio oscillante della linea che collegava la casa a quella accanto. Jackson udì una campana tintinnare all’interno. Clang, pausa lunga, clang clang, pausa breve, e poi altri clang e altre pause spaziate.
Il suono si confuse negli orecchi di Jackson. Appena il filo ebbe trasmesso il messaggio dell’amsir alla casa vicina, sentì un’altra campana, là dentro, echeggiare il suono. Poi lo udì di nuovo, più debolmente, nella casa più oltre e poi, molto fioco, in distanza: procedeva sempre in direzione della Spina. L’amsir smise di tirare e attese. Dopo un po’, Jackson udì un suono che ritornava lungo le corde, dalla Spina. Quale che fosse, fu una risposta breve. L’amsir annuì soddisfatto e con il giavellotto accennò a Jackson di proseguire.
«Bene, adesso affrettati», gli gridò dall’alto. «Ti stanno aspettando».
Altri amsir s’erano accorti della loro presenza. Alcuni uscivano dalle porte delle case, si lanciavano nell’aria e scendevano volteggiando per dare un’occhiata a Jackson. Altri (donne e bambini, almeno si comportavano come avrebbero fatto le donne e i bambini dei contadini) si tenevano aggrappati agli stipiti delle porte.