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Si formò una specie di processione, Jackson a terra e tutti gli abitanti in volo. Gli amsir lanciavano richiami l’uno all’altro, e ai familiari nelle rispettive case. E i familiari rispondevano. C’era un gran baccano nell’aria, e ombre e colpi di vento al suolo. Jackson provò a sconcertarli camminando sotto le case anziché intorno, ma là sotto c’era troppo letame, e non ritentò una seconda volta. Procedeva a testa china, cercando di non urtare il braccio, canticchiando una canzoncina che sua madre gli aveva insegnato e aveva amato sentirgli ripetere.

«Ah, quando sarò un Honor, / E andrò in cerca di selvaggina, / La gente della terra loderà il mio nuovo nome. / L’Anziano mi raserà / E mi darà un nuovo nome / E la gente del ferro banchetterà con la mia selvaggina. / Le bestie della sabbia / Avranno paura di me. / L’Honor del ferro / Avrà un nome nuovo!

Ritornello: Talordims zasherparda / Ishalna twan / Talordims zasherparda / Ishalna twan!».

Prima ancora che lui arrivasse ai piedi della loro Spina, gli amsir erano quasi fuori di sé per l’eccitazione; fra i richiami e le grida e il frullo delle ali, lui avrebbe potuto rovesciare la testa all’indietro e urlare con tutta la forza dei polmoni, e chi l’avrebbe sentito? Esattamente. Chi l’avrebbe sentito? A lui faceva piacere canticchiare, e poi era digustato dal modo in cui si comportavano gli amsir.

C’erano guardie all’ingresso della Spina, e ululavano e agitavano i giavellotti per deferenza verso il suo amsir, che aveva portato un umano. C’erano folle rumorose che piombavano già dall’aria e si intruppavano dietro di lui e il suo amsir e avanzavano verso l’entrata. Ma soltanto Jackson e il suo amsir vennero ammessi, e la porta si chiuse di scatto dietro di loro; rimasero per un momento in silenzio, e poi Jackson fu spinto avanti, lungo il corridoio, verso la stanza dov’erano attesi. All’improvviso c’era un gran silenzio. Jackson si sentì sospingere nella stanza, e oltre ad altri amsir di vari tipi e grandezze ce n’era uno che stava acquattato e che girò la testa sul collo storto.

«Scoprirai che siamo più svegli della tua specie. Come devo chiamarti?», chiese. «“Diavolo bagnato” è troppo rispettoso, e “Uomo” è ambiguo. Quale è il tuo nome personale?». Be’, se non era il loro Anziano, era un equivalente.

II

«Il mio nome è Honor Red Jackson», disse lui al vecchio amsir accovacciato. Forse non era poi tanto vecchio. E non era esatto neppure dire che era accovacciato: stava chino, con le gambe piegate, e appoggiava parte del peso sulle punte delle ali.

«Hanno un complesso sistema di nomi», disse prontamente un altro amsir, vecchio e più magro. C’erano parecchi amsir nella stanza, incluso uno che aveva l’aria di essere un dottore. Quest’ultimo si fece avanti e gli sbirciò il gomito. Poi cominciò a esaminarlo, rigirando le ossa nude e spolpate d’un braccio umano che teneva in una mano. Jackson si augurò che capisse in fretta cosa doveva fare per estrarre il dardo.

«Honor indica la sua posizione nella comunità», stava ancora spiegando quello magro. «Significa che vive esclusivamente dando la caccia a esseri come noi. Red significa che, oltre a essere cacciatore, ha adempiuto anche il compito opzionale di uccidere un essere della sua stessa specie. Jackson vuol dire semplicemente che è figlio di un altro maschio di nome Jack. Per essere così poco numerosi, hanno una sorprendente varietà di rituali. Non so immaginare come distinguano due fratelli dall’identica posizione sociale… Con questo, non dico che non lo facciano. Sono sicuro che li distinguono».

L’Anziano amsir borbottò a quello magro: «Ti prego, non fornirmi altre etichette. Forse loro dovranno distinguere, ma noi non ne abbiamo mai tanti da doverlo fare. Dimmi che cosa è, non che cosa rappresenta».

«Te lo sto appunto dicendo. È significativo che sia così giovane, che abbia le cicatrici recenti di un combattimento con uno della nostra specie, il che indica che ha ucciso uno dei nostri, e poi le cicatrici ancora più recenti del combattimento con uno della sua specie. Questo è strano, ed è avvenuto prima che compisse un gesto ancora più strano e si arrendesse volontariamente». L’amsir magro guardò Jackson con fierezza, come se l’avesse portato lì lui.

«Più è strano, meglio è», scattò l’Anziano. «Con quelli normali non abbiamo avuto fortuna».

«È esattamente quel che intendevo», ribatté il consulente.

«E allora perché non l’hai detto subito?».

«Pfah! L’ho detto».

«Soltanto dopo. Esci. Attendi che ci sia bisogno di te». L’Anziano indicò con la testa la porta, e l’istruttore uscì. L’Anziano rivolse tutta l’attenzione verso l’estremità della stanza in cui si trovava Jackson. «Tu, dottore… Avanti». Si avvicinò di qualche passo; non sembrava più vecchio, adesso che era meglio illuminato dalla luce che entrava dalle strette feritoie della Spina. Le trine sbrindellate e l’ala accartocciata, notò Jackson, erano ridotte così a causa di qualche lesione. Era coperto di cicatrici e di chiazze. Sembrava che fosse stato preso e sbattuto con forza contro qualcosa di molto duro, che avesse perduto molti brandelli di pelle e si fosse fratturato parecchie ossa. Ma appariva autorevole come un Anziano, e questo turbava Jackson. Non gli andava l’idea che qualcuno fosse tanto carogna, lì dentro, da essere un Anziano, e nel contempo non fosse neppure un po’ rimbambito.

«Tu, Jackson… Io sono superiore a tutti gli altri, qui. Nessuno degli esseri della mia specie ti dirà che abbiamo tempo, quindi dammi risposte svelte e precise. Mi è stato riferito che tu eri pronto ad arrenderti quando ti ha trovato il giovane che sta accanto alla porta. Questa è una cosa nuova. Spiegati».

Il dottore posò una mano sul bicipite di Jackson, l’altra sull’avambraccio, e strinse nel becco l’estremità piumata del dardo piantato nel gomito. I suoi artigli strusciarono sul pavimento metallico per far presa.

Jackson pensò che fosse meglio non badargli. «Non mi piaceva dove stavo», disse all’Anziano. «Ho deciso di andare a scoprire quali erano le menzogne. E magari di inventarne altre tutte mie, se fosse stato necessario».

«Pfu. Le menzogne richiedono vita. Tu non vivrai».

«Vivrò fino al momento in cui morirò. Oh, diavolo!», urlò, quando il dottore ritrasse la testa di scatto, torcendogli il braccio. Il dardo si sfilò dalla ferita, restò appeso per un istante nel becco del dottore, fino a quando questi non lo lasciò cadere. La mano si chiuse alla meglio sopra il gomito: le dita dell’amsir non erano abbastanza lunghe per cingere il braccio. Jackson cercò di aiutarlo, mentre la vista gli si offuscava.

«Io credo che tu pensassi di poter dare la caccia a noi come noi la diamo a voi», disse l’Anziano. «Credo che fossi convinto che c’era un altro mondo dove gli esseri come noi erano le prede. Credo che pensassi di conoscere un modo di procurarti la roba da respirare. Sei giovane. I tuoi giudizi sono romantici. Credevi che, siccome eri un po’ strano e facevi paura ai tuoi simili, avresti fatto paura anche a noi».

Jackson continuò a stringersi il braccio, barcollando ad occhi chiusi. Ma aveva lo spazio sufficiente, dentro, per pensare quanto era meraviglioso il fatto che tutti, amsir inclusi, credevano di sapere tutto solo perché sapevano qualcosa.

«Bene, non è affatto così, essere», continuò l’Anziano, mentre il dottore stappava una boccetta di pietra, piena di qualcosa che sembrava acqua ma bruciava come il fuoco sul gomito insanguinato, e poi cominciava ad avvolgere una lunga, stretta striscia di pelle sottile attorno al braccio, dalla spalla al polso. «Sotto certi aspetti, tu stai a noi come gli esseri come noi stanno a voi. Noi non possiamo respirare la sostanza che c’è intorno ai vostri campi. Ad ogni boccata si assorbe il pulviscolo di quello che voi coltivate. Moriamo, bellamente, diresti tu, al primo respiro. I nostri muscoli si contraggono fino a spezzare le ossa, la spina dorsale si frattura, una lanugine verde riempie i nostri polmoni. Almeno così dicono i nostri istruttori, perché da moltissimo tempo non abbiamo più tentato di farlo.