«Ah! Noi moriamo se respiriamo l’aria che passa sulla roba che voi mangiate. Questo è ciò che mangiamo noi». Tese un’ala, indicando un angolo dov’era ammucchiata la sostanza azzurra e friabile che Jackson aveva visto nei campi. «È roccia. È il nutrimento per le creature delle ali e dello spirito. Tu puoi mangiare la roccia? Nessuno della tua specie c’è mai riuscito. Morirai bellamente. Il tuo stomaco si contrarrà, le ossa spunteranno dalla pelle. Verso la fine cercherai di azzannarci, e noi ti cacceremo a calci. Morderai te stesso. Tenterai di ritornare alla tua Spina velenosa, e noi ti rimanderemo a calci al tuo lavoro. Vivrai in tutto trenta giorni, forse, o forse meno. Forse forse vivrai un po’ di più. E forse forse forse sarai di nuovo felice prima di morire. Dipende: se saprai fare le cose in fretta e bene. Dipende: da quanto sei strano, e soprattutto se sarai più fortunato di tutti gli altri esseri della tua specie che abbiamo avuto qui. E adesso», concluse, indicando con la testa il braccio fasciato di Jackson, «tra quanto credi di poterlo usare per lavorare?».
Jackson provò ad alzare il braccio. Pulsava dolorosamente, e sembrava fatto di una stecca massiccia d’osso. «Grazie, dottore», disse all’amsir che se ne stava in disparte e l’osservava con aria critica.
Jackson tentò di muovere la mano. Non ci riuscì. Cominciò a batterla contro la coscia, per ristabilire la circolazione nelle dita. «Che genere di lavoro?», chiese all’Anziano.
«Te lo mostrerò». L’Anziano indicò la porta. «Svolta a destra, appena uscito».
III
Jackson obbedì. L’Anziano e il giovane che l’aveva catturato lo seguirono. Anche il dottore fece per andargli dietro, ma l’Anziano voltò la testa e disse: «Tu no». Il dottore si affrettò a girare su se stesso e si diresse frusciando verso la luce, nella direzione da cui era entrato Jackson.
Il corridoio si addentrava nella Spina degli amsir. Era stretto, e di tanto in tanto c’erano luci accese dietro pannelli traslucidi, nel soffitto. Era come camminare attraverso le costole di qualcosa; ogni tanto arrivavi a una centina ovale che saliva lungo le pareti e attraversava il soffitto. C’era sempre una porta accuratamente ripiegata contro la parete. A metà percorso, tra due di quelle porte, ce n’era un’altra abbastanza simile, ma inserita nella parete alla sinistra di Jackson. Quelle erano chiuse; qualche volta, dietro c’era una luce che filtrava attraverso una finestrella ovale, e qualche volta non c’era. Qualche volta uscivano particolari suoni di macchine in funzione; qualche volta c’era soltanto il suono generale della Spina, più forte e sano della Spina di Jackson. Ma nessuna delle porte gli diceva nulla.
Il corridoio s’incurvava un po’ di qua e un po’ di là; qualche volta girava bruscamente. Dai suoni che diventavano più forti e poi cominciavano ad attutirsi alle sue spalle più o meno con lo stesso ritmo, Jackson intuì che era una specie di sentiero, usato per attraversare la Spina senza doverle girare attorno. Per tre volte arrivarono a scalette che occupavano quasi la metà dello spazio del corridoio e sparivano oltre botole rotonde del soffitto. Due erano chiuse, e i gradini erano opachi e lisci. Sopra la terza scala c’era un’apertura nera e rotonda, e i gradini erano tutti scalfiti. C’erano chiazze lustre sulla parete, accanto alla scala, dove le ali degli amsir s’erano strusciate chissà quante volte. Jackson cercò di immaginare un amsir che saliva una di quelle scalette, mentre guardava come dovevano muoversi adagio per girarle intorno e continuare a procedere per il corridoio. Quel posto non era molto comodo per loro. Bene, non era comodo neppure per lui, ma non c’era altro.
Arrivarono in un’alta camera che si apriva sull’esterno. C’erano altri due amsir: un giovane grassottello e l’istruttore.
«Glielo mostri adesso?», chiese quest’ultimo all’Anziano.
«Non diventerà certo più forte con il passare dei giorni».
«No… O, almeno, non è mai stato così per nessuno di loro. Ma, vedi, hanno la capacità di accumulare energia. È sorprendente, a pensarci bene. Almeno, non abbiamo mai visto nessuno di loro portarsi il cibo nel deserto, e sappiamo senza ombra di dubbio che qui sono riusciti a funzionare senza nutrimento per periodi considerevoli. E invece, stentiamo a trovare individui della nostra specie capaci di resistere senza cibo per un giorno soltanto…».
«Ciò cui si riferisce il dotto che mi è tanto superiore», interruppe il giovane amsir che era con l’istruttore, «è che forse questi esseri barattano il tempo con l’energia. Forse passano in una sorta di stato di sopravvivenza che permette una protrazione del consumo d’energia mantenendo un basso livello di attività fisica e mentale. Come hai appreso dai discorsi del dotto, ci terrebbe moltissimo a cercare di stimolare uno di questi esseri, per esempio con la sofferenza, in base alla supposizione che questo lo costringa a rientrare in una fase più energica… Forse di durata più breve, ma molto più produttiva di risultati complessivi…».
Nessuno ascoltava con interesse, neppure l’amsir istruttore che stava facendo il suo meglio per non prestare attenzione o, almeno, per darsi l’aria di pensare ad altro. Guardava le pareti, il pavimento e il soffitto, mentre la voce del novizio si affievoliva. Jackson non voleva sentir parlare di sofferenza, qualunque cosa fosse una «fase». Il giovane amsir che l’aveva catturato stava guardando il novizio dell’istruttore allo stesso modo in cui un Honor avrebbe guardato un contadino della sua stessa età, anche se non lo squadrava con l’intento di ucciderlo. Finalmente, l’Anziano disse: «Silenzio». Lo disse gentilmente, e il novizio dell’istruttore tacque. L’Anziano guardò Jackson e chiese: «Nel posto da dove vieni tu, i giovani fanno molto moto?».
«Solo per andare a caccia. L’agricoltura non ha bisogno di cure. La Spina irriga i campi con l’acqua, e gli aratri vanno diritti, qualunque cosa si cerchi di fare».
«Bene, noi siamo migliori di voi», disse l’Anziano. «State zitti tutti e due», aggiunse, rivolgendosi all’istruttore che aveva appena cominciato ad aprire il becco. «Questo è già un esperimento sufficiente così com’è, per quanto mi riguarda». Sospinse Jackson verso la porta, con la punta di un’ala. «Esci e guarda», disse.
Dalla soglia, Jackson si ritrovò a guardare qualcosa che sembrava una piccola Spina. Si ergeva nell’aria, affusolata, ed era alta una dozzina di volte più di un uomo. Ma era irta di spuntoni, e c’erano altri spuntoni inclinati verso il basso… Era posata su tre di essi. E aveva aperture simili a gole spalancate verso il suolo. Era fatta dello stesso tipo di metallo della Spina: ma con quella forma, con quegli spuntoni e quelle bocche spalancate, aveva un’aria subdola e maligna.
«Cos’è?», chiese Jackson.
«È l’Oggetto. È sempre stato qui, fin dall’inizio del mondo. Vedi quella?», chiese l’Anziano, indicandone il fianco. C’era una scaletta che scendeva, fino a circa un braccio dal suolo. Jackson socchiuse le palpebre per vedere meglio; lassù, in cima alla scaletta, c’era qualcosa che sembrava un’altra porta chiusa. Ma non aveva la solita maniglia circolare. Era solo una sottile fessura ovale nel metallo. Girando la testa e dondolandosi un po’ sulle gambe, Jackson scorse i luccichii di numerosi graffi, lassù: erano poco profondi, niente più che scalfitture inutili.
«Quella è una porta, non è vero?», disse l’Anziano.
«Sembrerebbe», ammise Jackson. «Non lo sai?».
«Dice di essere una porta. Ha una voce, e l’istruttore sostiene che dice proprio così». L’Anziano lanciò uno sguardo di sottecchi all’istruttore. «Non c’è nessuno che sappia dirmi di più», aggiunse, seccamente.