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Si assestò più comodamente. Il dottore se lo teneva ancora seduto addosso. «Sapete», disse Jackson, «è proprio strano che sia andata così». L’Anziano amsir lo aveva lusingato con tutte quelle chiacchiere, dicendogli che forse li dentro c’era da mangiare e qualcosa per curare il suo braccio, e gli venisse un accidente se non era proprio vero. Fortuna. Era la sua ricompensa perché non si era mai arreso? Chi poteva saperlo e mandargli la fortuna? Dov’era un posto dal quale il distributore della fortuna poteva vedere tutto? Ariwol esisteva davvero, dopotutto? Credi nella fortuna, credi in Ariwol, eh? Meglio non credere nella fortuna. E allora come la chiami quando arriva, eh?».

«Hai altri ordini, capitano?», chiese impaziente Susiem.

«Be’, non so. C’è un posto, qui, dove posso dormire?».

«Non hai nessun bisogno di dormire, adesso», disse il dottore.

«Dormire!», disse simultaneamente Susiem. «Hai attivato tutto e vuoi dormire?».

«Be’, noi umani dormiamo. Anche quando non ne abbiamo bisogno. Non sai mai quando ti capiterà ancora la possibilità di farlo».

«Gli umani», disse il dottore, «dormono a orari precisi e regolari».

«È giusto», disse Susiem. «La stasi spreca energia!».

Oh, cribbio, non finisce mai, pensò Jackson. Neppure con le macchine. «Be’, senti… Devi avere avuto altri capitani…».

«Direi!».

«Cosa facevi, quando dormivano?».

«Quando dormivano, era sveglio il primo ufficiale. Ma non sai niente degli umani?».

«Ha bisogno di ragguagli culturali», disse il dottore.

«Più di quanto abbia bisogno di un primo ufficiale?», chiese Jackson.

«E l’individuo nella camera di compensazione? Non è quello il tuo primo ufficiale?».

«Lui?». Nella mente di Jackson, in quel momento, Ahmuls era soltanto un klop, klop, klop contro la porta interna. E bastava? Non aveva ancora deciso cosa fare. Ma perché doveva decidere adesso? Non avrebbe dovuto trascorrere lì il resto della sua vita. Essere capitano… Quando le macchine non avevano in mente qualcosa d’altro. «Cosa fa un primo ufficiale? Deve essere un umano molto bravo a maneggiare una lancia, credo. Ma sembra che non ce ne sia un gran bisogno. Voglio dire, tu sei di metallo, dottore, e in quanto a te, Susiem, non so neanche dove sei».

Susiem ridacchiò.

«Bene, questo è decisivo», disse il dottore. «Prescrivo un’università a questo ragazzo. Hai la biblioteca necessaria, vero?».

«I Susiem, evidentemente, hanno tutto», rispose Susiem, mentre il braccio del dottore, con pronta delicatezza, spingeva altre sezioni per bloccare i polsi di Jackson. La sedia cambiò inclinazione, facendolo quasi sdraiare.

«Non devi offenderti. Tieniti pronta, piuttosto, a intervenire quando do il segnale. E non curiosare nei miei banchi memoria quando siamo in sovrapposizione… Tutti sono convinti che per diventare dottori basta conoscere i fatti: una volta piazzati i leucociti e i citoplasti ai posti giusti, chiunque crede di poter essere una segaossa! È quello che pensi tu. Quindi tieniti fuori e fai il tuo lavoro, e io farò il mio».

Cosa diavolo stavano combinando? Jackson tentò di sfilare le braccia, e questo gli permise di scoprire che era impossibile. E anche se si fosse liberato, dove avrebbe potuto fuggire? Fuori? Attraverso la piccola stanza dove Ahmuls bussava e bussava? Ma cosa diavolo volevano fargli? Due tamponi rotondi spuntarono dietro la sua testa, la strinsero leggermente.

«Bene, adesso parto con i predispositori». Una cosa minuscola, simile alla punta cava di un giavellotto, uscì di scatto dalle viscere del dottore, sfrecciò alla gola di Jackson, si arrestò vicinissima e sparò qualcosa di freddo e pungente nel punto dove la pulsazione del sangue si avvicina di più alla superficie della pelle. Jackson lo sentì solo per il tempo di un battito del cuore; era ancora meravigliato per la rapidità con cui si muoveva quando la punta guizzò via e sparì. «Dose massiccia», commentò il dottore. «Con questo individuo occorre la stessa dose che servirebbe per insegnare composizione sinfonica a un cavallo». Jackson sentì che ai suoi occhi, e ai suoi orecchi stava accadendo qualcosa di molto strano. I suoni cominciarono a spezzarsi in minuscoli frammenti vibranti. I contorni di tutto ciò che vedeva si confusero, e si sentì molto debole. Torrenti di lacrime scintillanti gli sgorgarono dalle palpebre inerti e gli corsero sulla faccia.

Dalla bocca dello stomaco si dilatò una sensazione calda, ingombrante. Si sentiva le dita come se le palme venissero tagliate, senza dolore, lungo le ossa. Mentre le lacrime gli piovevano dagli occhi, le labbra erano gonfie e aride; e mentre il ventre era caldo, la fronte era gelida. Deglutì, e sentì uno schiocco negli orecchi. Sbatté le palpebre, e gli occhi colmi di lacrime parvero riempirsi di sabbia. «È pronto», disse il dottore.

Un altro spruzzo fine e freddissimo sulla nuca di Jackson. «Inizio dell’input». Qualcosa che era sottile e solleticante come uno dei capelli di Petra Jovans si insinuò nel collo di Jackson, penetrò elegantemente nella testa e, a quanto gli parve di capire, restò lì a fremere. «Sta bene, inserisciti», disse il dottore.

Qualunque cosa fosse, Jackson intuì che Susiem doveva averlo fatto perché all’improvviso, dentro la sua testa, dove era lui, vi fu una sensazione come… accadde una cosa come… be’, quello che accadeva era che… no, quello che accadeva era…

«A chi potrei dirlo?», urlò Jackson, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. «Chi mi crederebbe?».

II

Non era diverso, in realtà, dal ricordo di essere stato bambino, intorno alla Spina. Un giorno era soltanto un marmocchio (un marmocchio qualunque, a parte il fatto che era dentro se stesso), e il giorno dopo era lì, a bordo della nave della spedizione, e ricordava. Probabilmente non era diverso.

«Ebbene?», chiese il dottore.

«È fatta», disse Susiem.

Aveva in bocca il sapore della polvere calda che turbinava intorno alla Spina, mentre lui correva e correva. La sensazione della prima volta in cui aveva mosso il braccio nel modo giusto e il dardo era volato diritto al bersaglio, ronzando, preannunciando quello che poteva fare Honor White Jackson. Honor Second Black Jackson. Honor Red Jackson. Honor Red Jackson, sofferente e affamato, che simulava d’essere una porta tra gli echi alieni della Spina degli amsir. E adesso era lì. La memoria non aveva né tempo né spazio.

Si sentiva la testa piena da scoppiare.

Ehi!, pensò, avevo ragione! Era troppo piccolo… Era tutto troppo piccolo, ed era tutto sbagliato. Io avevo ragione, e loro avevano torto.

Quando pensò a come avevano tentato di tenerlo incatenato, come si tenevano incatenati anche loro, cominciò a sorridere. Quando pensò agli amsir, che frugavano e cercavano, cercando di comprendere tutto dal posto in cui erano… Sorrise ancora più trionfalmente. Oh, caspita… Mia è la Terra e tutto quello che c’è.

«Congratulazioni, capitano», disse Susiem. «Ora sei laureato cum laude in Arti Liberali presso l’Università Statale dell’Ohio. Hai uno speciale diploma in Psicologia del Comando dell’Università di Chicago e un altro in giornalismo Militare dell’Accademia Aeronautica. Sei pienamente qualificato per comandare questa nave».

«Lo so», disse Jackson.

«Queste qualifiche ora sono registrate nel mio banco dei dati e verranno comunicate al Centro Statistiche della Terra appena avrò ristabilito il contatto con la rete comunicazioni del Progetto di Ricerche Generiche delle Università Associate del Middle West», continuò scrupolosamente Susiem.