Jackson la sentiva appena. Sentiva, attraverso la struttura della nave, molto sommesso ma molto presente nei suoi pensieri, un klop, klop, klop.
«Non conosci un modo per farlo uscire dalla camera stagna e fargli ridiscendere la scaletta, vero?», disse pro forma; ma del resto non voleva farlo. Povero, sciagurato Ahmuls. Se l’avesse fatto uscire e l’avesse rimandato all’affetto dell’Anziano amsir, di che utilità sarebbe stato, dopo che la nave se ne fosse andata? E la nave se ne sarebbe andata. Lui non aveva certo intenzione di restare per sempre a terra, anche supponendo che il sistema di supporto vitale potesse durare tanto a lungo, adesso che il suo organismo lo sfruttava. Ma anche questo era secondario… Anzi, irrilevante. Chi, conoscendolo per ciò che era adesso, sapendo quali lacune c’erano da colmare, avrebbe potuto immaginare che lui andasse in qualche altro posto che non fosse la Terra?
Sulla Terra, ad Ariwol, notò tra parentesi. Sulla Terra, ad Ariwol. La lingua della sua mente si attorceva voluttuosamente intorno alla capacità di far fluire le vocali lunghe; trasse un respiro profondo, così profondo da dargli le vertigini.
Klop, klop, klop.
Buttarlo fuori, al ridicolo e al disprezzo, all’inutilità, dopo che la nave se ne fosse andata? Come poteva fare una cosa simile a un essere in suo potere, quando non aveva neppure bisogno di mangiarlo?
Mangiare.
«E il lichene che gli amsir mangiano? Puoi sintetizzarlo per… per il nostro compagno di viaggio?».
«Io so fare tutto quello che può fare un Susiem».
«È una forma terrestre assolutamente normale», disse il dottore.
«Oh. Allora non ci sono problemi. Lasciamolo entrare. Lo terremo a bada abbastanza a lungo perché tu e Susiem possiate fare il possibile per il suo cervello e la sua scheda, e tutto sarà risolto».
«No. Ecco, stai già dimostrando che la poca conoscenza è più pericolosa dell’ignoranza. Innanzi tutto, non so cosa intendi tu per “tenerlo a bada”, ma io certamente non affronterei un organismo ostile delle sue dimensioni con un arto fragile quanto lo è il tuo braccio in questo momento. E non mi sembra che tu abbia tratto le esatte conclusioni circa la sua dieta. Mi sorprende che sia riuscito a sopravvivere, là fuori. Non ho predispositivi in grado di fare qualcosa di utile ai suoi acidi nucleici. Stai antropomorfizzando. A tutti gli effetti, tra lui e gli umani c’è meno affinità di quanta ce ne sia tra te e me».
«È ridicolo!», esclamò Susiem. «È perfettamente umano… non può volare, vero?».
«Se non vuoi che i tuoi errori vengano scoperti, nave, non attivare i dottori».
«Basta, voi due, piantatela», disse Jackson. Cosa diavolo intendeva il dottore? Lui non poteva tenere a bada Ahmuls? Adesso sapeva benissimo come poteva tenerlo a bada. L’aveva imparato al secondo anno d’università. Quel che non gli avevano insegnato era come farselo piacere. Però gli avevano insegnato a fare anche cose che non gli piacevano, quando studiava per il diploma di psicologia. Erano sorprendenti, tutte le cose che aveva imparato. «Dottore… E va bene, non puoi predisporlo. Puoi rimetterlo in sesto, se venisse ridotto male?».
«Non è un problema», rispose il dottore.
«Susiem, se lo facciamo entrare, puoi proteggere le tue componenti in quella sala?».
«In una certa misura».
«Bene, allora lasciamolo entrare… Sono stufo di questo posto. Prima la finiamo, e prima potremo muoverci». Chissà se ad Ahmuls piacerà Ariwol.
Salì la scaletta, fino al livello della camera di compensazione. Accostò la faccia alla porta. «Ahmuls! Ahmuls, mi senti?»
«Figlio di puttana».
«Ascoltami… Se ti apro questa porta, cosa farai?».
«Ti ammazzerò, figlio di puttana».
«Ahmuls, ascoltami bene. Forse non lo crederai, ma posso conciarti per le feste».
«No, se ti ammazzo, figlio di puttana».
«Ahmuls, te lo sto dicendo… Mi hanno dato…». Che cosa gli avevano dato? Gli avevano dato un’arma, e lui l’aveva presa.
Al tempo in cui erano stati lanciati Susiem e l’Esperimento di Adattabilità della Vita alle Condizioni Extraterrestri, l’arte del combattimento senz’armi, sulla Terra, aveva raggiunto un punto di sviluppo che rendeva inutili le esercitazioni e superflui i calli del karateka. Il sistema era stato perfezionato e semplificato, tanto che era sufficiente una spiegazione dei punti da toccare. Chiunque avesse una memoria decente per le istruzioni e una discreta destrezza poteva usare con successo il sistema contro un uomo altrettanto esperto ma con i riflessi più lenti, e contro tutti gli inesperti, con rapidità fulminea e risultati sconvolgenti. I riflessi di Jackson non erano pronti come quelli di Ahmuls, ma la sua memoria era svelta quanto il modo in cui Susiem aveva comunicato le istruzioni al suo cervello, e del resto Ahmuls non aveva idea…
«Ah, al diavolo», disse Jackson. «Susiem, apri il portello».
Era sbalorditiva la velocità di quel fenomeno da baraccone, nonostante le sacche di pelle flaccida, i grugniti, lo slap-slap dei grossi piedi, le mani tozze protese dagli avambracci come da un paio di maniche sbrindellate.
Jackson si tese, protendendo l’indice destro, e lo toccò come gli era stato insegnato allo stadio dell’assolato campus gotico di Canterbury. Fu sconvolgente vedere Ahmuls perdere l’equilibrio. Jackson si chinò, prontissimo, toccò la caviglia che riuscì a raggiungere: Ahmuls urlò. Probabilmente non aveva conosciuto spesso il dolore, almeno da quando era diventato abbastanza grosso.
Jackson arretrò. «Ascolta, Ahmuls… Adesso non puoi alzarti per attaccarmi. Mi ascolti?».
Ma Ahmuls poteva alzarsi. C’era gente che camminava con una gamba fratturata… E magari correva, se doveva farlo e se era in stato di shock. Tutto stava nella misura dell’effettiva incapacità fisica introdotta nella loro struttura fisica. Erano capaci di continuare a correre fino a che tutto si disintegrava. Succedeva di continuo, sui campi di football e nell’addestramento dei paracadutisti. Il guaio era che spesso li faceva correre ancora più forte. E adesso Ahmuls era nelle stesse condizioni.
Jackson guizzò, aggirando la carica di Ahmuls. I suoi riflessi erano più lenti, ma il metodo era infallibile contro gli attacchi, purché l’occhio riuscisse a registrarli. Toccò Ahmuls sulle costole. Il fianco di Ahmuls si trasformò in una sacca scorticata di sangue. Maledizione, non sporcarmi!, pensò Jackson, mentre lo evitava di nuovo. Ah, stupido animale! «Arrenditi!», urlò.
Ahmuls lo caricò con un grugnito: «Lasciami stare, lasciami stare!».
Jackson gli toccò entrambe le braccia. Dovette reggere l’urto di Ahmuls, ma lo ricevette dalla parte del fianco ferito dell’avversario: e, del resto, da quel momento Ahmuls non poteva più usare le braccia per avvinghiarlo. Le muoveva, certo, ma si piegavano in troppi punti, e Jackson riuscì a passare in mezzo.
«Fai venire qui il dottore!», urlò.
«Attento alle mie componenti!», gridò Susiem, mentre Ahmuls barcollava.
«Vai al diavolo, tu e le tue componenti!», gridò Jackson. Toccò Ahmuls alla base della schiena e sentì la carne trasformarsi in poltiglia mentre lo shock si irradiava dal punto di contatto, e poi toccò di nuovo lo stesso punto, tanto per stare sul sicuro; questa volta sentì sulla punta delle dita la stessa sensazione che si prova da bambini, quando si spinge un dente da latte fuori dall’alveolo. Ahmuls mulinò le braccia flaccide: ma non aveva più nulla che gli reggesse le gambe e stramazzò, piegandosi su se stesso sopra la caviglia spezzata, tendendo le braccia fratturate per afferrarlo, crollando sul fianco fratturato e poi sulla faccia. Restò accasciato sulle ginocchia, con le braccia protese, la faccia schiacciata sul pavimento, e un occhio rosso che fissava Jackson.