«Va bene, va bene», piagnucolò. Le lacrime trovarono canali nascosti fra le grinze della guancia.
Jackson si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui. «Avevo cercato di dirtelo», mormorò.
«Yuh». Ahmuls avventò il collo, come poteva, rapidissimo, cercando di addentare il polso di Jackson. Jackson gli spinse giù la testa. «Piantala. Per piacere, piantala».
«Yuh. Yuh, va bene, va bene, non mi resta niente». Le sue dita strisciarono verso la caviglia di Jackson, trascinandosi dietro il braccio. Jackson le premette con il ginocchio. Il dottore entrò e si fermò.
«Bene, maledizione», urlò Jackson, «cosa stai aspettando?».
«Non ho l’autorizzazione».
«Sta bene. Secondo le disposizioni veterinarie d’emergenza, dichiaro che questo è un essere alieno prezioso e innocuo in grave pericolo. Ti ordino di procedere e di prestargli le cure mediche nella misura consentita dalle tue conoscenze e dalla tua esperienza!».
I fianchi del dottore si aprirono. «Sissignore. Non è un problema».
Ahmuls aveva desistito dal tentativo di muovere le dita sotto il ginocchio di Jackson. Accanto alla sua faccia, il pavimento era bagnato. «Cosa volete fare? Cosa volete farmi, brutte cose molli?».
«No, no, tutto a posto, Ahmuls», disse Jackson. Con la mano posata sulla testa di Ahmuls faceva movimenti carezzevoli, nel punto dove un amsir avrebbe avuto le trine. «Il dottore ti guarirà. Dovevi ascoltare, Ahmuls. Perché diavolo non sei capace di ascoltare? Io ti voglio bene».
«E dovevi picchiarmi?».
Il dottore raccolse Ahmuls tra le braccia. Era sorprendentemente delicato. Lo sollevò quasi con tenerezza, per fare in modo che Ahmuls stesse comodo. Era davvero di una gentilezza sconvolgente.
Una macchina della manutenzione era già sgusciata fuori dal suo recesso nella parete. Ronzava intorno ai tre, giostrando per raggiungere i punti danneggiati del ponte.
«Aspetta il tuo turno, Susiem», disse rabbioso Jackson, affrontando la macchina della manutenzione come se avesse occhi e orecchi. «Non hai un po’ di discrezione, neppure un po’».
CAPITOLO 12
I
«Dammi un’inquadratura audiovisiva dell’esterno», disse a Susiem, e sedette al posto di pilotaggio.
Susiem girò uno schermo verso di lui. Gli autoparlanti si riempirono dei suoni dell’esterno; il fruscio delle ali, il mormorio del vento, lo scricchiolio di vaste distese metalliche all’aperto. Gli amsir volavano di sentinella davanti al portello, avanti e indietro, con i giavellotti branditi. C’era una quantità di lance spezzate, a terra, sotto la scaletta. Sulla soglia della Spina erano intruppati l’Anziano degli amsir, l’istruttore, e una decina di apprendisti, in pose non essenzialmente utili. Li sentì parlare; regolò con impazienza il comando dell’audio per distinguere le loro parole. Erano desolati e litigiosi.
«E io dico che dobbiamo riconoscere la possibilità che gli intrusi, qui, siamo noi!», stava dicendo uno.
«Taci! Ricordo benissimo un discorso testimoniato, nel quale venne postulato impeccabilmente che, se l’Oggetto distruggeva al semplice contatto quelli della nostra specie, doveva essere ancora più terribile il fato di qualunque essere che avesse lasciato entrare nelle sue fauci!».
«Taci tu! Sono pronto a sfidare le tue conclusioni!».
«Anziano!», disse Jackson, e l’Oggetto ringhiò agli amsir sulla soglia della Spina. «Anziano… stai indietro!».
«Cosa?». Il becco corneo si alzò. I vivaci occhi scuri scrutavano in direzione del portello, in cima alla scaletta.
«Anziano, ho alcune rivelazioni da farti».
Il comunicatore si spense di colpo.
Lo schermo si oscurò, gli altoparlanti tacquero. «Non sei autorizzato a contaminare l’esperimento!», scattò Susiem. «Stai trascendendo la tua autorità e contravvieni direttamente i regolamenti della spedizione. Non sei autorizzato a comunicare dati ai soggetti sperimentali. Tutti i fatti necessari ai soggetti sperimentali sono predeterminati, programmati, e furono introdotti nel sistema molto tempo fa. Un’eventuale ripetizione di questo episodio causerà la tua automatica e immediata destituzione dal comando. L’incidente verrà registrato sul giornale di bordo. Verrà trasferito agli archivi centrali sulla Terra alla prima occasione, dopo il ristabilimento dei contatti con la rete comunicazioni del Progetto. Ti rivolgo un biasimo ufficiale. Sei autorizzato a riprendere le comunicazioni a condizione però, che non effettui ulteriori tentativi di contaminazione».
Lo schermo e gli altoparlanti si riattivarono. «Stai indietro», gridò Jackson all’Anziano. Contò dieci secondi sull’orologio digitale. «Andiamo, Susiem», disse, e con un’esplosione e un rombo e un lampo partirono, portandosi via la speranza di un mondo, mentre tutto intorno cadevano corpi dilaniati di amsir.
II
La Terra era verde, pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. La Terra era verde, bella, ebbra del vino della vita, in una condizione che non era stata raggiunta molto spesso dai tempi in cui per la prima volta le colline della Grecia erano state disegnate così dall’abile matita di Walt Disney.
Non era sembrato un viaggio particolarmente lungo. Jackson ne aveva trascorso una buona parte sul sedile di pilotaggio. All’inizio aveva contemplato le stelle nelle loro grandi panoplie smaglianti, sorprendendosi al pensiero che adesso finalmente capiva cos’erano, baloccandosi con concezioni d’immensità, dicendosi che era tutto immane, e che la creazione era meravigliosa e insondabile. Fantasie del macrocosmo e del microcosmo assediavano la sua comprensione. Tutto quel grande meccanismo a orologeria, quell’esplosione e quella decadenza, quei cicli ed epicicli d’infinito facevano fremere i suoi capillari di brividi di gioia nel constatare la ricchezza della tavola imbandita davanti a lui. Per un po’, credette di comprendere le complessità infinitamente minuscole che sfrecciavano girando su se stesse per formare ogni millimicrocubito di immensità.
E Susiem contribuiva ad alimentare in lui quella sensazione. Gemeva e strideva, fra tonfi e scossoni; la cuccetta di Jackson tremava alle sue vibrazioni. Ogni accensione, ogni scatto di ticchettante attività pareva riflettere un nuovo spasimo dello sforzo di divorare le miglia tra il punto in cui si trovava e le nebulose su cui si posava il suo sguardo.
Ma trascorsero un paio di giorni, e Jackson si accorse che le nebulose non si erano fatte più vicine. Aveva una chiara comprensione intellettuale delle miglia che venivano scandite ogni giorno sugli strumenti di Susiem. Era convinto che avrebbe dovuto calcolare quanti giorni di gemiti, tonfi e scricchiolii di quel meccanismo instancabile sarebbe stato costretto a sopportare prima di arrivare alla nebulosa più vicina. Pensava che un uomo non poteva sopportare più che tanto.
Naturalmente, Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva sopportarlo in eterno. E solo qualcuno come Susiem poteva avere la voglia di farlo.
«Come va il dottore con Ahmuls?», le chiese, pensando che fosse un modo adatto per spiegare che si sentiva solo tra una miriade di stelle.
«Controllerò… Riferisce buoni progressi. La guarigione è ben avviata, e il paziente riposa. È docile».
«Sì, bene. Gliene sono successe tante».
Disse a Susiem di chiudere di nuovo gli schermi ad ablazione dei finestrini nella cabina di pilotaggio. E per un po’ si fece proiettare nastri della Terra. Scoprì che era esattamente come la ricordava: brulicante di uomini e delle loro opere, incredibilmente bella, echeggiante di lampi di luce e di suoni, fremente di movimento, e cantava di energia nel vento del mattino e della sera.