Jackson creava per se stesso piccoli momenti di ingenuità. Guardava i fiumi scendere precipitosi dalle montagne e scorrere sulle pianure e diceva a se stesso: non ho mai saputo che ci fosse tanta acqua al mondo. Com’è tutto verde! Com’è ricco! Guardava le città alle biforcazioni dei fiumi, i complessi portuali nei delta dove si mescolavano i fiumi e l’oceano, e gridava tra sé: Thalassa! Thalassa! Comparava il volo degli aerei supersonici allo svolazzare degli amsir e fingeva di vedere un lanciarazzi portatile come il bastone da lancio di un semidio. Allungava il collo per contemplare le guglie altissime delle immense città. E gemeva, nel fondo della sua mente: «Ah, Spina!».
Ah, accidenti, disse quasi subito… Essere un uomo con una laurea! E ordinò a Susiem di smettere.
Cosa doveva fare? Jackson consumò un altro pasto. Questa volta fu delizioso, perché adesso sapeva scegliere. C’era persino il vino. Il vino era molto meglio della birra, ma lo lasciava di malumore.
Chiese a Susiem di suonargli un po’ di musica. Lesse i testi della sua biblioteca, limitandosi soprattutto alla narrativa d’evasione… Soprattutto western, all’inizio. La biblioteca di Susiem aveva un indice molto preciso: servendosene con capricciosa noncuranza, Jackson si imbatté in John Carter di Marte, e da quel momento i suoi gusti si ampliarono. Era arrivato alla lotta di G-8 contro la portaerei terrestre del Kaiser quando Susiem gli fece sapere che poteva parlare con Ahmuls.
«Ti senti bene?».
«Si sente benissimo. Tutte le lesioni strutturali sono state riparate e adesso sono guarite. È stato un lavoro massiccio, ma con tutte le cose che io so fare, e tre giorni di sonno, adesso sta benissimo».
Ahmuls era semisdraiato in una cuccetta dell’infermeria, in un angolo. C’erano ombre sulla sua faccia. Ma teneva le mani alte, a incorniciare le guance, e si vedeva la luce scintillare negli occhi aperti.
«Cosa ne pensi di tutto quanto?», chiese Jackson.
«Fa schifo», borbottò Ahmuls. Jackson dovette riflettere prima di riuscire a capirlo… Borbottava così in fretta, e tante sillabe del suo linguaggio erano cadute dalla nitida parlata del Midwest che Jackson ricordava dall’indottrinamento. «Quella macchina-dottore dice che stiamo andando in qualche posto». Ahmuls continuò a borbottare, e Jackson decifrò tutto esattamente: migliorava, con la pratica. «Dove?».
«Già, bene. Sono qui per spiegartelo. Hai finito di cercare di ammazzarmi?».
«Non posso ammazzarti, figlio di puttana».
«Oh, andiamo, Ahmuls. Sono contento che tu abbia smesso di cercare di uccidermi, ma vorrei che non mi chiamassi così. Senti, non è più come è stato per tutta la nostra vita. È diverso».
«Io non sono diverso».
«Be’, io sì».
«Lo dici tu».
«Vuoi ascoltarmi?».
«Devo ascoltarti. Tu puoi ammazzarmi».
Jackson sospirò e fece un gesto in direzione di una sedia. La sedia uscì prontamente dalla parete. Lui sedette, con la sensazione di essere lì da molto tempo. «Bene. Allora ascolta. Prima eravamo in un posto chiamato Marte».
«Amirs», ripeté studiatamente Ahmuls.
«Bene: dunque c’erano due posti dove viveva la gente. Il mio posto e il tuo».
«Un posto solo, dove vivevano gli amsir. Tu non sei gente. Forse io non sono gente. Ma almeno non sono molle come te».
«C’erano due posti dove viveva la gente. Gli amsir e gli umani. Ma venivano dallo stesso posto. Gli amsir avevano un aspetto diverso dagli umani perché qualcuno voleva vedere se si potevano cambiare gli umani».
«Gli umani sono diversi dagli amsir. Gli amsir sono la gente».
E avanti così. Jackson trascorse gran parte del resto del viaggio tentando di spiegare la genetica ad Ahmuls. Ma Ahmuls era convinto di sapere già più di quanto potesse insegnargli chiunque. Stava quasi sempre seduto sulla cuccetta, mangiando piccole confezioni cubiche di lichene che gli venivano preparate da Susìem secondo il menu prescritto dal dottore, ma ascoltava perché Jackson avrebbe potuto ammazzarlo, se non l’avesse ascoltato. Questo, Ahmuls sembrava averlo imparato molto prima di avere Jackson per insegnante.
Finalmente, Susiem annunciò a Jackson che tra poche ore sarebbero atterrati a Columbus, Ohio, e che lui avrebbe fatto bene a cercare di rendersi presentabile.
«Sta bene», disse Jackson. «Ahmuls, hai sentito? Fra poco avrai la possibilità di vedere veramente qualcosa. Vedrai più gente e più macchinari di quanti tu e io possiamo immaginare. Vedrai il posto da dove veniamo tutti. La tua gente, la mia gente, la gente degli amsir. Veniamo tutti dallo stesso posto. Vedrai gente che vive in case alte come duecento case. Vedrai posti che, al confronto, il posto dove vivono gli amsir non sembra più grande di una casa degli amsir di fronte al villaggio intero. Vedrai cose che sfrecciano nel cielo trecento, cinquecento volte più veloci di quanto possa volare un amsir scendendo in picchiata».
Ahmuls chiese: «Quante dozzine fanno?».
«Oh, buon Dio. E va bene. Non imparare. Sto cercando di dirti che vedrai tante cose e non saprai come comportarti. Avrai più possibilità di essere felice di quanto hai mai pensato». Be’, sembrava ragionevole. Quel mondo così grande e così complesso doveva pure aver qualcosa da offrire a quel povero fenomeno da baraccone.
Quel povero, pericoloso fenomeno da baraccone. «E avrai anche tante occasioni di comportarti da stupido e di soffrire. Quindi te lo dico per l’ultima volta: se non vuoi imparare, d’accordo, non sei obbligato a farlo. Ma, per Dio, sappi almeno che sei stupido. Non andare a cacciarti nei guai. Guarda e aspetta. Cammina in punta di piedi. Magari, dopo un po’ capirai che ti sto dicendo la verità. Quando sarai pronto, fammelo sapere, e io ti spiegherò di nuovo».
«Ho già capito tutto», disse Ahmuls, giocherellando con le pieghe di pelle che gli crescevano sulle braccia, dove avrebbe dovuto avere le ali.
III
Poco prima di raggiungere l’atmosfera, Jackson scese in infermeria per stare con Ahmuls: sapeva che il frastuono e i cambiamenti d’accelerazione l’avrebbero sconvolto. Jackson portava la tuta celeste di capitano, con le spalline delle Università Associate.
«Che cos’hai addosso?», chiese Ahmuls.
«Questi sono vestiti», disse Jackson. «Ho detto a Susiem di prepararne anche per te. Ecco». Gli porse la tuta confezionata su misura. «Devi indossarli anche tu. È come una coperta. Serve per proteggerti dal freddo e dal sole».
«Non ti avevo mai visto portare i vestiti».
«Be’, non li portavo. Ma adesso so che è meglio».
«Io non lo so, che è meglio».
«Senti, vuoi che tutti pensino che sei strano?».
«Chi, quella gente molle che hai detto che somiglia tutta a te?».
«Avanti, Ahmuls, vestiti».
«Mi ammazzerai se non mi vesto? Non ho freddo, e non c’è il sole. Non sono abbastanza furbi da entrare in quelle loro grandi case ammonticchiate, quando ce n’è bisogno?». Ahmuls lasciò cadere la tuta sul pavimento.
Jackson scosse la testa. «E va bene, Ahmuls. Va bene». Si sdraiò su un’altra cuccetta. Aveva già la pelle irritata in un paio di punti per l’attrito, e faticava ad abituarsi all’idea di essere così avviluppato alle gambe e all’inguine. Ma era tremendamente imbarazzato al pensiero di uscire dalla nave, in uno spazioporto di gente, con un fenomeno da baraccone tutto nudo al suo fianco. A pensarci bene, era la prima volta in vita sua che si sentiva veramente imbarazzato.
Era una sensazione spiacevolissima. E assorbì una parte considerevole della sua attenzione mentre la nave scendeva. Ahmuls continuò a piagnucolare e a dibattersi sulla cuccetta. Che ne sarà di lui?, si chiese Jackson.
Ma la Terra era verde e pastorale, con le colline coronate d’olmi, i rari edifici bassi e di un bianco puro. «Questo è lo spazioporto delle Università Associate», disse Susiem, mentre Jackson guardava dal Portello aperto della camera di compensazione, come un bambino che ha appena visto un dardo colpire di sbieco un bersaglio e rimbalzare via. «Vi sono stati cambiamenti sociali sulla Terra, dopo il mio ultimo contatto con il Progetto. Mi è stato assicurato che verrai informato di tali cambiamenti da un’altra fonte. Tu e il tuo compagno dovete sbarcare immediatamente da questa nave, poiché non è più classificata abitabile. Attenti tutti! Il capitano scende a terra!».