«Addio, amici», disse il dottore, mentre Jackson e Ahmuls si calavano giù per la scaletta. «Non preoccuparti, Ahmuls… Il tuo menù è registrato. Mi è stato riferito che quando avrai fame non dovrai fare altro che dirlo a voce alta».
«L’ho sempre fatto», disse Ahmuls.
Jackson alzò lo sguardo verso Susiem. La nave stava cominciando a emettere un suono vibrante. Notò uno sciame di insetti colorati, danzanti, che turbinavano intorno all’estremità della prua. Sfrecciarono come proiettili dalla cima della collinetta più vicina, in una fiumana che si addensò rapidamente, si divise per passare fra i tronchi e si radunò sempre più appassionatamente intorno alla nave. Il suono vibrante aumentò di volume, e Jackson vide che adesso Susiem era smussata. La prua era scomparsa. Sotto il suo sguardo, gli insetti, volando in una spirale serrata, divorando un altro strato di metallo dello scafo, e poi le girarono di nuovo intorno, consumando un poco di più a ogni passaggio, transitando molto rapidamente. Era come un esercito di termiti pazze che distruggesse la casa di Elmer Fudd.
Alcuni insetti si staccarono da Susiem e sfrecciarono verso il suolo. Uno, molto vicino, sembrava eseguire un’azione tipica: aveva in bocca un piccolo pezzo di acciaio per astronavi, e stava girando su se stesso come una trivella. Penetrò per poco meno di un metro nel terreno, a giudicare dalla velocità, poi risalì con le mandibole vuote e sfrecciò via immediatamente per andare a prendere un altro frammento.
Insetti più grandi scesero dal cielo, penetrarono negli spazi dei ponti e tra le componenti, dietro le paratie sventrate. Ripartirono ronzando, trasportando alcune componenti tra le appendici a tenaglia e gettando via quasi tutte le altre che caddero in una scia, al di là della rimpicciolita Susiem, con tonfi secchi sopra l’erba folta e verde e ben tagliata e i delicati fiori selvatici. Insetti che si muovevano al suolo e altri esseri metallici dello stesso tipo attendevano per raccoglierle: le facevano a pezzi, ne seppellivano alcune, e altre le trangugiavano come se possedessero un apparato digerente.
«Ehi!», gridò Jackson, cercando di comunicare con Susiem prima che sulla Terra non restasse più nessuno in grado di spiegargli quel che stava succedendo. Ma ormai era troppo tardi. Susiem e il dottore e il robot che serviva i pasti e il robot addetto alla manutenzione e tutto il resto, eccettuata la tuta di Jackson, erano morti e inutili. Be’, no, non inutili. Una quantità di minerali preziosi era stata appena restituita al suolo della Terra.
Ahmuls si guardava intorno. «Sta arrivando gente», disse. «E non è mica vestita».
CAPITOLO 13
I
Aveva gli arti molto pesanti. Non era sformato come Ahmuls, ma aveva gli arti molto pesanti. E Ahmuls aveva ragione: quelli non avevano nulla addosso.
Era un gruppo numeroso di uomini e donne, poco meno di una ventina. Il primo (un uomo dalle membra snelle, con una muscolatura molto più elegante e massiccia di chiunque Jackson avesse mai visto) era apparso, camminando con passo agile, da una depressione poco lontana. S’era fermato a guardare Jackson e Ahmuls, ritto sull’erba che gli arrivava alle caviglie, e c’erano scintillanti bagliori argentei che gli turbinavano intorno alla testa e alle spalle, come un effimero cappuccio di stelle diurne. Poi i minuscoli insetti s’erano involati nel cielo e s’erano perduti, e l’uomo aveva rivolto un cenno a quelli che erano nella depressione, dietro di lui. E gli altri l’avevano raggiunto.
Erano tutti adulti, e si muovevano con una sicurezza che faceva pensare agli amsir. Evidentemente, fino a poco prima stavano facendo qualcosa insieme, laggiù, fuori di vista.
Jackson si sentiva pesante, e aveva la sensazione che ci fossero due schermi cinematografici trasparenti, uno sull’altro, tra lui e quelle persone.
Mentre le guardava, comprese che cos’erano. Erano umani che si erano nutriti nel modo giusto per tutta la vita, erano vissuti nel modo giusto, avevano avuto la giusta assistenza medica. Erano umani discesi dal tipo di persona che era stato lui stesso, quando frequentava l’Università Statale dell’Ohio.
E con gli occhi del tipo di persona che lui era stato all’Università Statale dell’Ohio, adesso sapeva come doveva vedersi. Era basso, sgraziato, con le gambe lunghe e nodose, lo stomaco incavato. La sua carnagione sembrava la pelle di un cavallo che avesse sfondato una recinzione di filo spinato. I suoi occhi erano incassati, di un azzurro-ghiaccio senza traccia di melanina, e le sclerotiche sembravano d’osso levigato e umido. I suoi capelli erano una corta criniera irregolare di paglia fragile. Chiuso in quella tuta, lui era una parodia.
Lì gli uomini erano troppo grandi e grossi, le donne erano troppo sveglie. Stavano venendo verso lui e Amhuls come se nessuno di loro avesse mai messo il piede su di una lappa.
Bene, che cosa doveva fare? Non poteva neppure farsi vedere da loro mentre si strappava di dosso la tuta e ridiventava se stesso. Sarebbe stata una goffaggine troppo grande.
«Visto? Te l’avevo detto… Niente vestiti».
«Giusto. Ti chiedo venia, Ahmuls».
«Mi chiedi cosa?».
«Volevo dire “scusami”».
Il ronzio degli insetti era cessato. Adesso Jackson poteva udire il mormorio della brezza dolce fra l’erba morbida e prendersi il tempo di percepire il calore del sole meraviglioso sul viso e sulle mani. Ricordava persino le passeggiate nei boschetti ombreggiati dell’Università Statale, in aprile, e la gioia sonnolenta delle ore trascorse a crogiolarsi al sole di Jackson Park Beach, quando stava a Chicago. Sono a casa, pensò: sono a casa, dove non sono mai stato, e devo far valere i miei diritti.
Cominciò a sentire le voci, i mormorii dei nuovi venuti che parlavano tra loro. Scrollò la testa per schiarirsela, e sentì le contrazioni dei muscoli del collo.
L’avevano raggiunto. Alcuni alzarono le mani in saluti disinvolti e sorrisero. Erano tutti più alti di lui. Uno disse: «Ehi, salve! Comp ci ha detto che fate parte di quell’esperimento genetico su Marte. Tutti e due. Per la verità, Comp non ci aveva mai parlato dell’esperimento. C’è stato un afflusso cospicuo di dati nuovi, quando è scesa l’astronave che vi portava, e ci ha indotti a chiedere notizie. È la cosa più sensazionale che sia capitata da molti anni. È grandioso. Benvenuti a bordo».
L’accento era un po’ diverso da quello del Midwest. Ma non era inintelligibile. Jackson si stava già districando adeguatamente.
Comp doveva essere il Controllo Centrale, la cosa che guidava gli insetti, che decideva la sorte delle astronavi, degli esemplari arrivati dall’esperimento genetico su Marte, abbandonato o forse dimenticato, del paesaggio che ormai richiedeva soltanto un minimo di caratteristiche funzionali.
Era accaduto qualche tempo dopo che la spedizione di Susiem era partita per iniziare l’esperimento umano ormai superato. Avevano centralizzato i servizi, sotto un unico controllo onnicomprensivo, e adesso lui era tra la gente servita da quel controllo.
Ma sono uno di voi, pensò. Il mio corpo non è stato costruito tra di voi, ma la mia mente sì. Sono tornato indietro, dalle scimmie e dalla giungla; per me Simba è un carnivoro ailuropodo e Ahmuls è un pachiderma. E come dovrò parlarvi, perché possiate riconoscermi?