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«Lieto di conoscervi», disse, di slancio. «Questo è Ahmuls e io sono…». Un piccolo circuito dispettoso si chiuse nella sua mente. Aveva trovato il modo di presentarsi. Sorrise. «Io sono Jackson Greystoke».

II

Si era espresso nel modo più indicato. Sorridevano con gli occhi scintillanti. C’era una bruna che sembrava un po’ frastornata, ma una bionda dalla carnagione dorata stava illuminando con fare scandalizzato la sua ignoranza: Jackson vide le labbra zuccherine bisbigliare in fretta: «Tarzan, stupida!», prima che la bocca della bionda si volgesse verso di lui e diventasse una prugna matura.

Il primo uomo (forse era un po’ più vecchio degli altri, o forse no; era difficile capirlo, com’era logico) stava dicendo: «Meraviglioso! Ottima scelta. Il mio nome è… ah, Kringle. Questi sono i miei figli Dasher, Comet e Cupid. Le mie figlie Dancer e Vixxen. Gli altri miei figli Donder, Blitzen e Prancer. Lascerò che siano gli altri a dirti chi sono… Io non ne avrei la presunzione. Comunque vieni: andiamo tutti a mangiare un boccone, e così potremo parlare».

Era stupefacente, trovarsi tra umani che si comportavano così. «Vieni, Ahmuls», disse Jackson. Si sentiva sempre più a suo agio, cullato su una nube di nomi mentre gli altri si presentavano: Cincinnatus, Columbus ed Elyria; Perry, Clark, Lois e Jimmy; Fred e Ginger; Lucky, Chester, Sweet, Home e Wings (questa era la bruna, che venne guardata da alcuni degli altri con un’espressione delusa, quando disse il suo nome); Batten, Barton, Durstine e Osborne.

Jackson scoprì che li aveva capiti tutti bene, e li ricordava esattamente. Erano tutti molto calzanti. Anche quando Wings disse con aria vergognosa: «Ho sbagliato. Chiamami Pall».

«Ho fame», disse uno, in fondo al gruppo.

«Siamo pronti», disse sorridendo Jackson. «E grazie dell’invito. Andiamo», disse, rivolgendosi ad Ahmuls.

«Non voglio mangiare con te», disse Ahmuls. «Non voglio mangiare con questa gente».

Una voce parlò all’orecchio di Jackson. Avvertì un lievissimo svolazzo nell’aria, e con la coda dell’occhio intravvide qualcosa di lucido e metallico, librato accanto a lui. «Qui è Comp», disse la voce. «Ahmuls non deve preoccuparsi. Ci sarà anche il vitto adatto a lui».

Ahmuls chiese: «Cos’ha detto?».

«Ha detto che ti vuol bene. Vieni».

Alcuni stavano già cominciando a incamminarsi verso la depressione. Jackson mosse un passo per seguirli, si fermò, guardò Ahmuls aggrottando la fronte, girò di nuovo la testa e li vide allontanarsi, poi tornò a guardare Ahmuls. «Vieni!». Si mosse svelto: ma si sentiva pesante.

Gli occhi di Ahmuls sfrecciarono, seguendo la sua mano. «No». Si avviò, con una mano sulla parte destra della faccia, per sostenersi le palpebre in modo da sorvegliare Jackson.

Il gruppo giunse sull’altura erbosa. Durstine, la bionda il cui profumo era vicinissimo a Jackson, mormorò: «Vorrei avere pensato io ai vestiti». Jackson smise di guardare Ahmuls e le sorrise. Lei inarcò un sopracciglio, si toccò il lucido labbro superiore con la punta della lingua, e rise.

Jackson vide Kringle aggrottare la fronte.

CAPITOLO 14

I

La colazione era apparecchiata sull’erba: tutto era disposto in bell’ordine su una grande tovaglia bianca che senza dubbio era stata intessuta sul momento dalle api. I piatti eleganti avevano i colori della terra, dolcemente luminosi, delicatamente modellati in forme che sembravano fluttuare in attesa delle mani, delle dita, delle labbra. Jackson pensò che erano abbastanza fragili da piacere agli insetti, non soltanto all’uomo.

Si disposero sull’erba in atteggiamenti comodi, e Jackson li imitò. Fece colazione con tamales, varie leccornie, Riesling e conversazione, mentre le api di Comp portavano il lichene ad Ahmuls.

Non fecero piatti per Ahmuls. Forse Comp pensava che con quelle mani avrebbe fatto a pezzi qualunque utensile fabbricato dalle api, o forse non voleva produrre oggetti abbastanza goffi da risultare robusti. Ahmuls mangiò con fare burbero, sbirciandoli tutti quanti.

I sensi di Jackson erano presi dal profumo vivace delle donne, dal suono delle parole ordinate e cantate, non borbottate o muggite, o dall’orizzonte di un azzurro perfetto, senza la Spina. Quando guardava Ahmuls, e lo faceva di rado, lo guardava con la coda dell’occhio.

«Non è molto diverso dal modo in cui lo ricordi, vero?», stava chiedendo educatamente Kringle. «Immagino che ti sia fatto un quadro della situazione. Quando Comp raggiunse la soglia dell’efficienza, certi fattori esterni grossolani furono modificati quasi da un giorno all’altro, ma le verità rimasero.

«Abbiamo ancora i vecchi servizi: vitto, abbigliamento — o il controllo dei fattori che un tempo rendevano necessario l’abbigliamento — e abitazioni». Girò lo sguardo sull’erba folta, inarcò le sopracciglia in un’espressione di scusa e sorrise a Jackson.

«Ecco, per l’esattezza la distinzione tra abbigliamento e alloggio è scomparsa. In effetti, dipendeva dalla distinzione tra ambiente favorevole e ambiente ostile, e quando questo fu superato… Ma tu capisci cosa intendo. È molto simile al passato. La gente è la stessa. Noi abbiamo gli stessi sentimenti che tu ricordi… che ricordi della vecchia Terra e anche di Marte, scommetterei, Abbiamo gioie e dolori, rapporti sociali…».

Kringle guardò Ahmuls, Pall, e poi di nuovo Jackson. «Vi sono difficoltà grandi e piccole, come sempre… distinzioni tra individui… livelli di risultati ottenuti… Noi tendiamo a pensare che le nostre vite abbiano un tenore eguale, poiché il servizio esterno è così efficiente. E naturalmente siamo beneducati, poiché ognuno di noi riceve da Comp la sua parte, e nessuno considera un altro come potenziale fornitore o consumatore di beni e servizi. Non abbiamo bisogno di adularci a vicenda, né di parlare con durezza. Mi segui? Ah, vedo che ci riesci. Però…». Kringle aggrottò la fronte guardando un tamale. «Però, se ci portassi su Marte, vedresti che cambiamento! In pochissimo tempo, quelli fisicamente deboli e tardi di riflessi verrebbero eliminati, sì. Ma gli altri, ah, gli altri no. L’animale è troppo resistente, non credi? Immagino che in poco tempo io mi troverei alla testa di un gruppo numericamente più piccolo. Lo ammetto. Ma credo che, se postulassimo una specie di “indice di durezza” — compris? — la misura di una certa qualità fondamentale, che svanirebbe in coloro che vi partecipano in misura insufficiente (come avverrà sempre), ma che crescerebbe negli altri… Capisci dove voglio arrivare? L’“indice di durezza” dei superstiti di questo piccolo gruppo, su Marte, darebbe un totale certo non inferiore, forse superiore a quello attuale del gruppo intero». Kringle sorrise, con fare incoraggiante. «E sarebbe il fattore cruciale, no? La misura dell’umanità. Si potrebbe affermare che, finché l’indice non si abbassa, l’umanità non si sminuisce, indipendentemente da quello che potrebbe essere a ogni dato momento il numero degli esseri umani».

«Ottimo ragionamento», mormorò Durstine, che era vicina a Jackson. Si chinò per prendere un altro boccone dal piatto più vicino ai piedi di Jackson. Girò la testa per guardarlo in faccia e inarcò le sopracciglia dorate con aria interrogativa. Al suo cenno, gli porse il pezzo di formaggio e ne prese un altro per sé. Si muoveva splendidamente; si piegò, prese il formaggio, lo porse, si riassestò in un unico, composto gesto fluente.

Jackson lasciò ammorbidire il formaggio contro il palato. Doveva ammettere che ascoltava appena le parole di Kringle. E probabilmente non era un gran danno, a giudicare da quel poco che aveva sentito. Ma, cribbio, pensò, che meraviglia parlare e mangiare, così. E nessun motivo di preoccupazione, nessun obbligo di uscire in caccia per pagare tutto questo.