III
«Ascolta, Ahmuls, lui può ammazzarti», disse Jackson. «Guarda come tiene le mani. Ricordi cosa succede?».
Ahmuls scrutò, attento. «Siete tutti così furbi?».
Kringle gettò a Jackson un’occhiata languida. «Non sono sicuro che sia molto cortese, intromettersi nella conversazione degli altri».
«Bene, neppure io ne sono sicuro. Ma non credo che sia cortese tirare veleno addosso a qualcuno fino a quando non si arrabbia abbastanza perché tu possa ucciderlo».
«O questo non è veleno, o lui non è un umano», mormorò Durstine.
«Ottimamente formulato, mia cara. Continua a pensare con la stessa chiarezza», disse Kringle.
Ahmuls li stava scrutando uno dopo l’altro, mentre Durstine voltava sdegnosamente le spalle a Kringle, scostandosi i capelli dal collo e toccando deliberatamente il polpaccio di Jackson, in piedi accanto a lei. Kringle guardava Durstine, e Pall guardava un po’ Durstine e un po’ Jackson. Solo le api guardavano dove stavano andando; ma. quando una di esse cercò di gettare un altro pezzetto di lichene in bocca ad Ahmuls, questi grugnì, e mosse fulmineamente la mano, afferrò l’argentea pepita ronzante. Durstine soffocò un grido: «Com’è svelto!». Ahmuls lanciò l’ape verso Kringle. L’ape lo colpì con forza alla spalla, e Kringle si portò la mano sulla chiazza rossa che gli fioriva sulla pelle.
«Ai!», disse Durstine.
Vi fu un fruscio sull’erba, dietro Jackson; girò la testa per guardare. S’erano puntellati sui gomiti o sulle ginocchia o s’erano alzati in piedi; avevano smesso di starsene sdraiati e di parlare. Tenevano le teste alte, e i loro occhi brillavano, e le bocche socchiuse erano un po’ incurvate agli angoli.
Kringle era teso: vi fu solo una lievissima increspatura serpentina dei muscoli, su un polpaccio e sulla coscia, quando spostò il proprio peso, e un guizzo regolare cominciò sotto la pelle, appena sopra il gomito sinistro. Scostò la mano dall’ematoma causato dall’ape e si guardò le dita: ma non c’era niente, e l’ape, naturalmente, era volata via.
«Attaccami. Attaccami, animale!», mormorò Kringle. Teneva pronte le braccia e le gambe: le dita erano rigide e immobili, e la saliva luccicava sui denti inferiori.
«Ehi, ti dò fastidio, vero?», gli disse Ahmuls. «Come attorno alla Spina. Erano sempre quelli piccoli e malconci quelli che mi prendevano in giro. Il solo che non lo faceva era il capo di tutto quanto. Perché non mi lasci in pace? Forse diventerai un capo anche tu».
«Prova a toccarmi», implorò Kringle in un sussurro. «Prova solo a mettermi una mano addosso… per favore».
Oh, mio Dio, mio Dio, pensò Jackson, visualizzando quel che sarebbe accaduto nell’istante in cui Kringle avesse avuto un pretesto per scattare. Ahmuls, povero, stupido figlio di puttana… lo sapevo che qui non avresti potuto farcela. Perché non mi hai ascoltato? Perché non hai voluto imparare?
«No che non ti tocco», disse Ahmuls. «Credi che sono matto? Lasciami in pace, e io non ti toccherò».
«Lasciarti in pace? Sei tu che non lasci in pace me!», gemette Kringle.
«E allora me ne vado. Non sono mica matto». Ahmuls si voltò per andarsene, gonfiandosi e increspandosi, e si allontanò. Kringle lo fissò sbalordito, a occhi sgranati.
«Torna qui!».
«No», disse Ahmuls, girando appena la testa.
Neppure Jackson riusciva a crederlo. Dove sarebbe andato? Non c’era niente, là: soltanto erba e case bianche alla Walt Disney ed exteroaffettori. «Ehi! Aspetta! Aspetta!», disse Jackson, alzandosi. «Non andartene così!».
Ahmuls girò la testa, tenendo la faccia in modo da poter vedere Jackson. «Cos’hai, tu? A te non dò fastidio. Non darò mai fastidio a uno come te. Se voialtri volete questo posto, tenetevelo. Volete prendermi in giro, eh? C’è tanto spazio. Vi stancherete di prendermi in giro prima che io non trovi più spazio per andare. Credete che sono matto, che voglio farmi picchiare ancora per discutere con voialtri? Siete matti voi!».
E dove sarebbe andato, per trovare un posto che gli volesse bene? Con un paio di passi svelti, Jackson lo raggiunse. Posò la mano sulla spalla che sembrava pasta da pane. «Oh, su, avanti… Aspetta». Si accorse di avere assunto un tono implorante. «Senti, siamo appena arrivati. Devi avere un po’ di pazienza. Per te stesso. Voglio dire, qui c’è gente buona e gente cattiva, credo. E questo non m’impedirà di essere felice, qui. Tu potresti…».
«Io non sono come te. Io non sono come loro».
Kringle si stava avvicinando. L’atmosfera era cambiata. Sogghignava baldanzoso. Gli altri uomini sorridevano e ridevano di Ahmuls.
«Non cercare di addolcirlo», disse Kringle. «Non vuol saperne di noi. Lo capisce, quando ha perso. E in una cosa ha ragione. Non è come noi». Il suo sguardo guizzò per un attimo su Jackson. «O come te».
Ecco, pensò Jackson, con la gelida rapidità di un furetto, e se scoprissi che non posso vivere con costoro e poi scoprissi che mi è impossibile anche ritrovare Ahmuls, se si perde chissà dove?
«Senti, vuoi lasciarci in pace in modo che io possa parlargli?».
«Be’, non vedo il motivo perché tu debba perdere la pazienza». Kringle tornò indietro, verso gli altri. Si chinò, prese un bocconcino dalle dita di Durstine, e cominciò a masticarlo con gli incisivi, delicatamente, restando di fronte a lei in modo che Durstine avrebbe dovuto allungare le braccia intorno a lui, se avesse voluto prendere un altro po’ di cibo.
«Vieni, Ahmuls», disse Jackson.
«Ehi… Faccia a faccia, sull’infinita distesa della prateria, il muscoloso Jackson Greystoke e il suo mostruoso avversario si affrontavano», commentò Chester.
Durstine rise. Poi disse: «La battaglia tra due superbe macchine fisiche stava per avere inizio. Lì, nella pacifica radura che non aveva visto scene di violenza da venti secoli, all’improvviso vi fu il risveglio dell’antichissima eredità terrestre della lotta tra la forza bruta e l’intelligenza».
Donder declamò: «Un grande silenzio scese sulla terra mentre la Natura stessa pareva trattenere il respiro, nella fremente attesa dello scontro spaventoso».
«Cosa? Cosa stanno dicendo?», borbottò Ahmuls. Jackson girò la testa. Durstine e alcuni degli altri, e persino Kringle, stavano guardando lui e Ahmuls con occhi ridenti. Alcuni degli altri erano tornati a far colazione, e sorseggiavano e mangiucchiavano con grazia. Stavano tutti oziando.
Pall sembrava interessata: ma le persone dai grandi occhi umidi sembrano spesso emozionate quando in realtà si limitano a sfoggiare un fenomeno fisiologico.
«Lascia stare», disse Jackson ad Ahmuls. «Devi fare quello che vuoi».
Ahmuls disse: «Giusto». Salì pesantemente il pendio della depressione, profilato contro l’orizzonte pallido del mattino inoltrato, e cominciò a sparire, dalle gambe in su, mentre scendeva sull’altro versante, fuori dalla visuale di Jackson.
Ancora una volta vi fu il rapido, sotterraneo fruscio del pensiero. «Comp, gli starai dietro?».
«Oh, io so sempre dove sono tutti quanti, è ovvio», gli disse all’orecchio un’ape. «Anche se non potrei predire dove andranno. Ma credo che non sia un problema predire dove andrà lui. Troverà il posto».
Che posto, Comp? No, mi diresti solo un nome che non conosco. Che genere di posto?».
«Una specie di zoo».
«Uno zoo?».
«Unozoo, unozoo, unozoo, zoo, zoo», canterellò Kringle, lanciandosi in un walzer con Durstine. Chester afferrò Elyra. Cincinnatus prese Pall tra le braccia.
Poco dopo, stavano tutti volteggiando sull’erba, come aironi nella stagione del corteggiamento, canticchiando, sorridendo, con i volti accaldati. Gli occhi ridenti: solo Durstine ammiccava e Jackson, solo Pall sembrava temporaneamente frastornata, eppure anche lei canterellava: «Unozoo, unozoo, unozoo zoo zoo, unozoo, unozoo, u-unozoo-oo, ah, ah, ah, ah, zoo, zoo, zoo».