Salì il pendio della depressione e si guardò intorno. Il paesaggio davanti a lui era ondulato, deserto, non c’era traccia di Ahmuls o di altri. Ma c’erano molte api raccolte nell’aria, lassù.
«Guarda alla tua sinistra», disse Comp. «Sto cominciando a costruire il tuo amsir».
A circa settantacinque metri di distanza, gli exteroaffettori attaccarono l’erba. Scendevano sfrecciando per afferrare gli steli lanciati dai tagliatori al suolo. Li afferravano e li mettevano in posizione. Si muovevano con estrema rapidità, destrezza ed economia. Sembrava che l’erba si fosse liberata della sua docilità alla brezza e avesse deciso di piegarsi a modo suo. Si piegava in tutte le direzioni verso un centro comune, mentre gli exteroaffettori la prendevano: ma piegandosi si precipitava avanti, sradicata, e quando arrivava al centro, saliva zampillando, sospinta da sprazzi di argento ronzante, e davanti agli occhi di Jackson le api intessevano le ossa di un amsir.
Dita e tarso, gamba e rotula, femore e anca, lo intessevano dall’interno all’esterno. Spina dorsale, clavicola, giunture delle spalle, braccia, gomiti, avambracci, mani… Jackson vide il mignolo estendersi come il germoglio di un arbusto magico. Collo e cranio si intrecciarono in una compattezza strutturale. Poi la carne: ciuffi fibrosi lottavano assestandosi sulle ossa verdi. Dopo un momento, tutto fu completamente collegato. Poi le api lo vestirono: fu adattata la pelle, e le bolle si gonfiarono. Becco e artigli, cresta e ali; le trine svolazzanti… pallide; e mentre si muoveva appena, fremendo, gli exteroaffettori si insinuarono agilmente tra le fibre per dargli vita, schiarendolo.
Un esercito di scavatori si precipitò di corsa, e fuse i frammenti scintillanti del giavellotto. Lo gettarono in alto: un lancio basso, ma l’ala ondeggiò, mentre la mano destra s’abbassava di scatto per afferrarlo: con gli occhi scavati, si raddrizzò per girare la testa e guardare Jackson.
«Comp, il tuo nome è miracolo», disse Jackson.
«Il mio nome è Comp».
Jackson aprì il Velcro della tuta e se la sfilò. Immediatamente gli exteroaffettori si affollarono attorno a lui. Rabbrividì, quando gli si posarono su tutto il corpo. Ma era un tocco delicato: e sparirono di nuovo in un batter d’occhio. «Lozione solare», spiegò Comp.
«Oh. Già, è logico».
Si guardò intorno per vedere come la prendevano gli altri. Ma non ce n’era nessuno, vicino a lui. Erano tutti giù, nella depressione, seduti o sdraiati graziosamente, ognuno con un exteroaffettore su ciascun occhio, su ogni orecchio, su ogni mano. Una piccola fila, come una cintura di minuscole gemme, era posata su ogni stomaco, appena al di sotto dell’ombelico. Jackson guardò l’amsir d’erba ritto e vigile al centro delle stoppie. Jackson raccattò il bastone da lancio e i due dardi. La tuta era disintegrata.
«Sono pronto, quando vuoi, amico», gridò all’amsir.
«Pronto», gli disse Comp all’orecchio, e si ritirò.
III
L’amsir agitò la mano, brandendo il giavellotto verso di lui. Jackson mosse qualche passo, rapidamente: correre sull’erba era diverso, ma ricordava. Il ricordo gli diede i piedi dell’Ohio anziché i piedi della Spina: ma almeno glieli diede. Provò qualche lancio a vuoto con il bastone, si piazzò il dardo di riserva sotto l’ascella, e scattò.
Si comportava nell’unico modo possibile: come se lui e l’amsir avessero aggirato una duna nello stesso momento e si fossero visti da lontano. Corse via, diagonalmente, giù per il pendio, accelerando, pronto a buttarsi e a rotolare giù se l’uccellaccio avesse lanciato il giavellotto.
L’amsir si stava voltando. Mille o diecimila exteroaffettori spostarono il suo peso, gli alzarono le braccia, gli inarcarono i fianchi, alzarono la gamba. Si inclinò in avanti, piantò la gamba, alzò l’altra, e prese a correre come il vento, con le trine che svolazzavano, le ali spiegate. Corse attraverso il pendio, diagonalmente, allontanandosi da lui, tagliandogli la strada, mettendolo in una posizione in cui avrebbe dovuto lanciare nella direzione opposta a quella in cui stava correndo.
Merda!, pensò Jackson. Avevo dimenticato quanto sono furbi. Girò la testa per guardare indietro. I grandi occhi scuri e vuoti lo guardavano lungo l’ala. Jackson tese in avanti le gambe e puntò i piedi. Stava per arrestarsi slittando. L’amsir sogghignò, spiegò le ali e restò sospeso, immobile nell’aria, con le gambe staccate dal suolo. Piegò le ginocchia; un’ala si abbassò, l’altra si alzò. Si posò, girò su se stesso come su un perno, con gli artigli affondati nell’erba ruvida, il giavellotto brandito. Le gambe cominciarono un movimento a forbice. Venne avanti correndo come uno struzzo, diretto verso Jackson, divorando la distanza, sicuro di poter schivare ogni colpo.
Per acquistare lo slancio necessario per centrarlo con un dardo, Jackson avrebbe dovuto corrergli incontro, adesso. Se fosse corso a lato, l’amsir avrebbe potuto prenderlo perfettamente di mira. E lui, al massimo, avrebbe potuto tentare un colpo obliquo. Se fosse fuggito via, l’amsir l’avrebbe rincorso e abbattuto.
Oh, cribbio, pensò Jackson. E va bene, proviamo questo. Avanzò di tre passi, caricando il bastone, e al quarto passo lanciò.
Gesù, il tiro non aveva forza. Era abbastanza diritto, ma non aveva carica: era come tirare direttamente verso l’alto. Oppure con un braccio malato.
Sono fatto di pappa, in questo posto!, pensò. Il dardo poteva raggiungere l’amsir, ma quello sarebbe stato stupido se si fosse preso il disturbo di cambiare passo per schivarlo. Il dardo non gli avrebbe trapassato la pelle: sarebbe rimasto impigliato nelle trine. E anche se gli si fosse piantato nella carne, non avrebbe avuto la forza necessaria per bloccarlo.
Il dardo raggiunse l’amsir, che barcollò goffamente per evitarlo. Ma aveva sbagliato i calcoli. Gli corse incontro. Il dardo lo colpì al petto, in basso a sinistra, e parve penetrare, assurdamente. Penetrò fino all’estremità, con un suono di fibre sconvolte. L’amsir perse l’equilibrio. Allargò le ali per riprenderlo e lasciò cadere il giavellotto.
«Il dardo! Lanciagli l’altro dardo!», disse Comp all’orecchio di Jackson.
«Giusto». L’amsir era completamente proteso, e non aveva trazione. Jackson lanciò il secondo dardo, e questa volta aveva ormai abbastanza pratica per dargli un vero slancio. Lo sentì su e giù per il braccio, attraverso la schiena, fino alla pianta del piede, come una corda d’elettricità. Scagliò quel dardo più forte di quanto avesse mai fatto in vita sua, e in compenso gli strappò metà delle sensazioni che avrebbe dovuto provare. Ma colpì l’amsir d’erba: il dardo si piantò sotto la clavicola, a destra, e uscì dalla parte opposta, proseguì per un paio di metri, scese, rimbalzò a terra lasciandosi dietro una scia d’erba strappata. Il braccio destro dell’amsir si piegò all’indietro, come se i blocchi dei cardini di un aereo non avessero funzionato. Si raggomitolò intorno alla superficie dell’ala sinistra e piombò prono sulla prateria. Si sentì il suono del collo che si spezzava.
«È morto», disse Jackson.
Comp disse: «Ascolta».
Il suono era incomprensibile. Sembrava quello che potresti udire se corressi svelto, trascinando una lancia a punta in giù, sulla sabbia. «Che cosa diavolo è?».
«Sono gli applausi, Jackson. Gli applausi del trentotto per cento della popolazione mondiale… Con il volume dell’audio al minimo, naturalmente».
CAPITOLO 16
I
Jackson si avvicinò all’amsir. Giaceva dov’era caduto, con il primo dardo di Jackson che affiorava appena dal petto. Vi furono un fruscio, un tremito; si accasciò, e i tessuti si separarono. I minuscoli insetti metallici uscirono dalle fibre, e ognuno si portò via un pezzetto d’erba morta. Altri schizzarono su e si unirono ai primi. Le ali dell’amsir scomparvero, il corpo si appiatti. Il cranio si srotolò, e gli exteroaffettori scavanti corsero via con i componenti, in un’orda di paglia e di metallo che conservava ancora grossolanamente i contorni di un amsir, affrettandosi sull’erba per ritornare alle stoppie e rendere gli elementi al terreno. Uno sciame ronzante rosicchiò il giavellotto e i dardi; Jackson gettò nel mezzo il bastone da lancio, e anche quello venne divorato.