Ma Jackson aveva compreso.
«Bentornato a casa, Honor», disse Pall in tono sottomesso, e la Spina si riempì dell’approvazione del gruppo: un grande rombo composto di applausi e di grida d’ammirazione.
«Grandioso!», disse Kringle.
«Guardala, Jackson!», soggiunse, abbassando la voce. «Mia cara, è stata davvero un’idea tua? È meraviglioso. Meraviglioso. Jackson, lo vedi, no? Ha fatto di se stessa un’opera d’arte. È doppiamente eccitante. La nostra piccola Pall…».
Pall arrossì. «Grazie, Kringle». Non sapeva dove mettere le mani. Probabilmente era la prima volta in vita sua che riceveva un complimento per la sua creatività. «Per la precisione», disse, «vedi, sono molto ingenua… oh, Kringle ti dirà che non è vero, per educazione… E così alla fine mi sono detta: “Bene, se devi essere ingenua, e non puoi rimediare, tanto vale che ne ricavi qualcosa di costruttivo, no? Perché non…”. E così l’ho fatto! Ecco tutto. L’ho fatto, ed è tutto. Mi sono detta: Devi prendere quel che c’è e servirtene!».
«Mi pare che il risultato sia ottimo», disse Jackson. «Credo che questo tocco sottile, l’idea di presentarti non soltanto come un’opera d’arte, ma come un’opera d’arte dal significato duplice, sia un esempio della vitalità insita nella reazione naturale». Le sorrise e le toccò leggermente una spalla. Nella Spina proruppe un nuovo applauso. «Naturalmente, è la solita base concreta dell’implicazione sottile ma primaria a perfezionare il tutto», disse, guardando sinceramente quegli occhi che brillavano di soddisfazione. All’improvviso, quegli occhi traboccarono, e due lacrime perfette scorsero giù per le guance.
«Grazie», mormorò lei, così sommessamente che il recettore audio più vicino doveva affrettarsi a sfrecciare avanti, librandosi come un colibrì davanti alle sue labbra.
III
Pall circolava tra la gente, ricevendo i rallegramenti di tutti, non soltanto dei suoi amici. Camminava come una debuttante.
Jackson restò lì, a massaggiarsi il gomito sinistro.
Perry aveva lavorato su qualcosa, dietro un gruppo d’altre persone. «Ehi, guardate cos’ha fatto Perry!», cominciarono a esclamare, affollandosi, mentre altri si accalcavano a sbirciare sopra le loro spalle.
«Fermi, adesso! Tutti avranno la possibilità di vederlo!», borbottò Perry, con burbera bonarietà.
Gli exteroaffettori lo portarono al centro del cerchio, e lo posarono su tre esili, eleganti gambe metalliche. Dall’alto, una corda di luce si accese tra i drappi di cristallo e si concentrò sul quadro.
«Jackson! Vieni qui, Jackson!». Perry lo chiamò a cenni. «Questo lo dedico a te».
Oh, Gesù! Ma Jackson si mosse, con gambe che sembravano districarsi dalla colla, e andò a guardare.
Era stato dipinto a pennellate ampie, talvolta apparentemente laboriose, talvolta apparentemente agili. Era pieno di tutti i colori sbagliati. Mostrava la Spina di Jackson, in distanza, con il Sole pallido più indietro. Alla base della Spina erano allineati blocchi squadrati: si capiva che erano case perché qua e là c’era la luce in una finestra. In primo piano, in silhouette, con pochi dettagli che spiccavano per i riflessi di luce, c’era un amsir, steso sul pendio cieco di una duna, la testa alzata appena per spiare la Spina e le case. E a lato, intento a spiare l’amsir, c’era un Honor, anch’esso sbozzato rozzamente. Si capiva che era un Honor perché portava sulla testa qualcosa che ricordava gli elmetti tedeschi della seconda guerra mondiale e della guerra franco-prussiana. Doveva essere una calotta, pensò Jackson.
L’abilità non mancava, in quel dipinto. Evidentemente Perry aveva già eseguito opere del genere. Forse si poteva criticare la composizione, ma bisognava farlo sul piano professionale. Questo era doveroso riconoscerlo. Ma, Gesù Cristo, Comp aveva i dati esatti, nei suoi archivi; erano là a disposizione. Era sufficiente cercarli.
«Cosa te ne pare?», chiese Perry, nello scrosciare degli applausi, mentre altra gente si affollava intorno. Poi disse: «Certo, vorrai essere libero di usare i termini che preferisci… non sei tenuto ad adeguarti a quelli tecnici dell’arte grafica». C’era un sorrisetto di comprensione, agli angoli della sua bocca. «Dopotutto, molti altri miei amici dovrebbero usare anche loro il linguaggio dei profani».
Jackson aprì la bocca, poi la richiuse. Sentì la punta della lingua strofinare contro le facce interne dei denti, lateralmente.
«Di’ pure», invitò Perry.
«Comp», disse Jackson, «ho bisogno di un cavalletto, un sostegno, un foglio di carta da disegno e qualche carboncino. Subito».
Perry sembrava frastornato. La folla intorno a loro tacque. Gli exteroaffettori lavorarono in fretta.
Un altro raggio di luce inquadrò il foglio bianco, sopra il cavalletto di Jackson. Lui teneva tutti i carboncini, tranne uno, nella mano sinistra; per un minuto fece saltellare l’altro nella mano destra, guardandosi attorno. Si succhiò i denti, bruscamente, e si mise al lavoro. Accostò il carboncino alla carta. Disegnò per i presenti un amsir coraggioso e fanatico, con un dardo piantato nel foro aperto in una delle bolle: tentava di tenere una mano alzata e piegata all’indietro per tappare la ferita con le dita. E, intanto, faceva camminare davanti a sé un Honor vestito di pelle umana, che aspirava l’aria da una bottiglia, e lo sospingeva verso l’orlo del mondo.
Quando ebbe finito, ebbe finito. Jackson non sapeva esattamente quanto tempo avesse impiegato. Nessuno lo interruppe. Gli giravano intorno nervosamente e qualche volta mormoravano; ma lui riusciva a non farci caso.
Guardò il disegno: tutto era esatto, l’aveva eseguito nel modo giusto. La sua mano sinistra era annerita e vuota. Lasciò cadere sul pavimento l’ultimo carboncino, ai piedi di Perry. «Ecco ciò che penso del tuo quadro», disse. «Tecnicamente».
Vi furono numerose esclamazioni, da parte di coloro che stavano dietro di lui. Perry aggrottò la fronte e si accostò per osservare il disegno. Si grattò il mento, inclinò la testa avanti e indietro. «Temo… temo di non capire. Cosa stai cercando di dire con questo?».
Vi fu un crescente brusio di assenso, intorno ai due. «Sì. Che cosa dimostra?».
«È meglio che lasciate dare un’occhiata a me», disse Kringle, facendosi avanti. Si fermò a fianco di Perry; Jackson dovette arretrare per fargli posto. «Uhm… Cerchi di equiparare il carboncino alla pittura ad olio?», chiese Kringle a Jackson, in tono paternalistico. «È molto difficile paragonare l’arte espressiva con mezzi diversi, sai. Anzi», soggiunse in tono ragionevole, «è molto difficile istituire paragoni nell’arte. N’est-ce pas?».
«Quello che non capisco», disse Perry, «è perché abbia ritenuto di doversi sentire tanto ostile. Vedo quello che ha disegnato, ed è una scena completamente diversa. Come si può trovare la base per un confronto?».
Donder disse: «Ecco, credo che sia seccante, in qualunque modo lo si consideri! Voglio dire, Perry ha dedicato il quadro, a lui, alla sua festa… alla quale partecipiamo tutti. Che cosa vuole, agendo così?».
CAPITOLO 18
Tanto per essere sicuro, Jackson diede un’ultima occhiata alla differenza tra l’opera di Perry e il suo disegno. Poi si girò e passò tra la folla. Molti cercavano di spingersi avanti e di guardare i due centri gemelli dell’attenzione. Gli altri lo fissavano a disagio. Alcuni sembravano infastiditi, altri avevano l’aria di non sapere esattamente cosa fare, ma nessuno capiva perché lui fosse così scosso. Riuscì a emergere dalla calca senza alcun contatto. Si asciugò il sudore dal volto e poi, guardandosi il palmo della mano sporco di carboncino, comprese che probabilmente s’era impiastricciato a dovere la faccia. Uscì e si fermò a guardare i padiglioni che garrivano allegramente nella brezza.