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«No, non deve necessariamente esserlo» replicò l’abate. «Tu pensi che debba esserlo in quanto credi che io possa ricordare tutte le mie vite, ma ovviamente non posso. Non mentre sono vivo, almeno.»

«A questo non avevo pensato» ammise Morty.

«Immagina di dovere imparare cinquanta volta come si va al gabinetto.»

«Niente da rimpiangere, ritengo» disse Morty.

«Hai ragione. Se potessi ricominciare da capo non mi reincarnerei. Oltretutto proprio quando comincio a capire come stanno le cose, quei giovanotti arrivano giù dal tempio cercando un ragazzino concepito nell’ora in cui è morto il vecchio abate. Si può essere meno fantasiosi di così? Fermati qui un momento, per favore.»

Morty abbassò lo sguardo.

«Siamo a mezz’aria» disse dubbioso.

«Non ti tratterrò nemmeno un minuto.» L’abate scivolò giù dalla groppa di Binky, fece qualche passo nell’aria rarefatta ed emise un clamoroso urlo.

Il grido sembrò proseguire per parecchio tempo. L’abate risalì in sella.

«Non ti puoi nemmeno immaginare da quanto tempo non vedevo l’ora di farlo» disse.

C’era un villaggio in una vallata più bassa a qualche chilometro di distanza dal tempio, che veniva usato come una specie di industria di servizio. All’aspetto sembrava essere composto da casette sparse a casaccio, piccole ma isolate acusticamente in modo perfetto.

«Va bene qualsiasi posto» disse l’abate. Morty lo lasciò pochi passi al di sopra della neve in un punto in cui le casette sembravano essere più fitte.

«Spero che la tua prossima vita sia un po’ migliore» disse.

L’abate alzò le spalle.

«Si può sempre sperare» rispose. «Adesso avrò comunque una pausa di nove mesi. La vista non è un gran che, ma almeno si sta al caldo.»

«Addio, allora» disse Morty «devo correr via.»

«Au revoir» rispose l’abate tristemente e si voltò.

I fuochi delle Luci del Centro stavano ancora gettando la loro illuminazione tremolante attraverso il paesaggio. Morty sospirò e allungò una mano per tirar fuori la terza clessidra.

Il contenitore era d’argento, decorato con piccole corone. Vi era rimasta pochissima sabbia.

Morty, avendo la sensazione che la notte gli avesse già fatto passare esperienze terribili e che non potesse andare peggio di così, la girò con attenzione per dare un’occhiata al nome…

La principessa Keli si svegliò.

Aveva sentito il rumore di qualcuno che non emette alcun suono. Tutte storie quelle riguardanti piselli e materassi… la pura selezione naturale aveva stabilito, nel corso degli anni, che le famiglie reali che sopravvivevano più a lungo erano quelle i cui membri erano in grado di distinguere un assassino nel buio per il rumore che quello era sufficientemente intelligente da non produrre, perché, nel giro dei cortigiani, c’era sempre qualcuno pronto a fare a fette un erede con un coltello.

Lei rimase sdraiata nel letto, chiedendosi cosa fare. Aveva un pugnale sotto il cuscino. Cominciò a far scivolare una mano sotto le lenzuola, mentre sbirciava tutto attorno alla stanza, con gli occhi mezzi chiusi, alla ricerca di ombre poco familiari. Era consapevolissima del fatto che se avesse in qualche modo fatto capire di non essere addormentata non avrebbe avuto mai più l’occasione di svegliarsi.

Dalla grande finestra penetrava un pochino di luce nella camera, all’altra estremità di essa, ma le armature, gli arazzi e gli addobbi assortiti che ingombravano tutta la stanza avrebbero potuto fornire copertura per un’intera armata.

Il coltello doveva essere scivolato dietro alla testiera del letto. Probabilmente non l’avrebbe saputo comunque usare in modo adeguato.

Gridare perché accorressero le guardie, stabilì, non sarebbe stata una buona idea. Se c’era qualcuno all’interno della sua camera significava che le guardie dovevano essere state sopraffatte o, quanto meno, rese innocue da una grossa somma di denaro.

C’era uno scaldino sul pavimento accanto al caminetto. Sarebbe potuto servire come arma?

Si udì un debolissimo rumore metallico.

Forse gridare non sarebbe poi stata un’idea così malvagia, dopo tutto…

La finestra implose. Per un istante, Keli vide, incorniciata da fiamme infernali azzurre e purpuree, una figura incappucciata piegata sulla groppa di uno dei cavalli più grossi che lei avesse mai visto.

C’era qualcuno in piedi presso il suo letto, con un coltello mezzo sollevato.

Al rallentatore, lei guardò affascinata il braccio che si sollevava mentre il cavallo galoppava alla velocità di un ghiacciaio sul pavimento. Ora il coltello si trovava sopra di lei e cominciava la propria discesa, il cavallo stava indietreggiando e il cavaliere si trovava in piedi sulle staffe, brandendo uno strano tipo di arma la cui lama lacerò la lenta aria con un rumore simile a quello di un dito che passa sull’orlo di un bicchiere umido…

La luce svanì. Si sentì un attutito tonfo al suolo, seguito da una risonanza metallica.

Keli trasse un profondo respiro.

Immediatamente le venne posta una mano sulla bocca e una voce preoccupata disse: «Se griderai, me ne rammaricherò molto. Ti prego! Ho già guai più che a sufficienza per come stanno le cose.»

Chiunque potesse esprimere con la voce una tale quantità di sconcertanti preghiere doveva essere o sincero oppure un attore talmente bravo da non aver certo bisogno di abbassarsi agli assassinii per potere sbarcare il lunario. Lei chiese: «Chi sei?»

«Non so se mi è permesso dirtelo» disse la voce. «Tu sei ancora viva, non è vero?»

Lei si astenne dal pronunciare una risposta sarcastica appena in tempo. Qualcosa nel tono di quella domanda la preoccupava.

«Non lo puoi stabilire tu?» chiese lei.

«Non è facile…» seguì una pausa. Lei si sforzò di distinguere qualcosa nell’oscurità, di poter applicare un volto attorno a quella voce. «Potrei anche averti causato un male terribile» aggiunse la voce.

«Non mi hai appena salvato la vita?»

«Non so che cosa ho effettivamente salvato. Non ci sarebbe un po’ di luce da queste parti?»

«La mia ancella lascia a volte dei fiammiferi sulla cappa del camino» disse Keli. Sentì la presenza che aveva accanto muoversi. Si udirono dei passi esitanti, un paio di tonfi e alla fine un botto, sebbene la parola non sia sufficiente a descrivere la reale e completa cacofonia di metallo caduto a terra che riecheggiò per la stanza. Esso fu anche seguito dal tradizionale debole tintinnio che segue un paio di secondi dopo che uno pensa sia tutto finito.

La voce disse, in modo piuttosto confuso: «Mi trovo sotto un’armatura. In che punto dovrei essere?»

Keli scivolò silenziosamente giù dal letto, trovò la strada a tastoni verso il camino, localizzò il mucchietto di fiammiferi alla debole luce del fuoco morente, ne sfregò uno in uno scoppio di fumo sulfureo, accese una candela, trovò l’ammasso costituito dai pezzi dell’armatura, tolse la spada dal suo fodero e poi… rischiò di ingoiarsi la lingua.

Qualcuno le aveva appena dato una alitata calda e umida in un orecchio.

«È Binky» disse il cumulo. «Sta soltanto cercando di fare amicizia. Penso che gradirebbe avere del fieno, se ne hai un po’.»

Con regale autocontrollo, Keli disse: «Siamo al quarto piano. Questa è la stanza di una signora. Rimarresti sorpreso nello scoprire quanti cavalli facciamo salire fin qui!»

«Oh. Potresti aiutarmi a tirarmi in piedi, per favore?»

Lei appoggiò la spada a terra e scostò di lato un pettorale. Un viso sottile e pallido la guardò di rimando.

«Primo, faresti meglio a dirmi perché non dovrei mandare a chiamare le guardie comunque» disse lei. «Il solo trovarti nella mia stanza potrebbe farti condannare ad essere torturato a morte.»