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Quella sensazione misteriosa, irreale, si diffuse ben presto per tutto il castello. Il capo cocchiere ordinò che il catafalco di stato venisse tirato fuori e lucidato nuovamente e poi rimase inebetito nel cortile delle scuderie e pianse sulla sua pelle di camoscio in quanto non riusciva a ricordare perché lo avesse fatto. I servitori camminavano con passo leggero lungo i corridoi. Il cuoco dovette combattere una urgenza travolgente di preparare semplici banchetti di carne fredda. I cani ulularono, quindi smisero, sentendosi parecchio stupidi. I due stalloni neri che per tradizione conducevano il corteo funebre di Sto Lat divennero sempre più inquieti nelle loro stalle e uccisero quasi uno stalliere a calci.

Nel suo castello di Sto Helit, il duca aspettò invano un messaggero che era in effetti partito da Sto Lat ma che si era fermato a metà strada incapace di ricordare che cosa si riteneva dovesse riferire.

In mezzo a tutto ciò, Keli si muoveva come un fantasma solido e crescentemente irritato.

Le cose raggiunsero il loro culmine a pranzo. Lei entrò impettita nella grande sala e scoprì che non era stato sistemato alcun piatto di fronte alla poltrona reale. Parlando a voce molto alta e distinta al maggiordomo, era riuscita a fare rettificare la mancanza, quindi però aveva visto che i piatti di portata passavano rapidamente di fronte a lei prima che lei riuscisse ad infilarvi dentro la forchetta. Rimase a guardare con astiosa incredulità mentre il vino veniva portato e versato prima al Lord del Gabinetto della Corona.

Fu un’azione poco regale da compiere, ma lei tirò fuori un piede e fece lo sgambetto al cameriere col vino. Lui inciampò, bofonchiò qualcosa fra sé e sé e fissò lo sguardo sul pavimento.

Lei si sporse dall’altra parte e gridò nell’orecchio del Cerimoniere della Dispensa: «Riesci a vedermi, caro mio? Perché mai siamo ridotti a mangiare prosciutto e carne di maiale fredda?»

Lui si voltò interrompendo la conversazione a bassa voce che stava intrattenendo con la Signora della Piccola Sala Esagonale della Torretta a Nord, le dette una lunga occhiata in cui lo shock si fece strada attraverso una specie di sfuocata perplessità e disse: «Ehm, sì… io… ehm…»

«Vostra Altezza Reale» lo imbeccò Keli.

«Ma… sì… Altezza» balbettò lui. Seguì un pesante silenzio.

Poi, come se si fosse rimesso in funzione, le voltò le spalle e riprese la conversazione.

Keli rimase seduta per qualche istante, pallida per la rabbia e lo stupore, quindi tirò indietro la poltrona e si avviò come un fulmine verso le sue stanze. Un paio di servitori che stavano dividendo un veloce abbraccio nel corridoio esterno, vennero sbattuti da una parte da qualcosa che non riuscirono a distinguere chiaramente.

Keli corse in camera sua e si attaccò alla corda che avrebbe dovuto fare arrivare di corsa la cameriera in servizio dal salottino in fondo al corridoio. Non successe nulla per qualche tempo e poi la porta venne aperta lentamente e un volto pallido sbirciò dentro, fissandola.

Questa volta Keli riconobbe lo sguardo e fu pronta ad affrontarlo. Afferrò l’ancella per le spalle e la trascinò a forza all’interno della camera, sbattendo fragorosamente la porta dietro di lei. Mentre la donna, impaurita, guardava qualsiasi cosa eccetto Keli, lei balzò in avanti e le mollò un sonoro ceffone su una guancia.

«Questo l’hai sentito? L’hai sentito?» strillò.

«Ma… voi… io…» piagnucolò la domestica, barcollando all’indietro finché non andò a sbattere contro il letto e vi si sedette pesantemente sopra.

«Guardami! Guardami in faccia quando ti parlo!» urlò Keli, avanzando verso di lei. «Tu riesci a vedermi, no? Dimmi che riesci a vedermi o ti farò giustiziare!»

La donna la fissò nei terrorizzanti occhi.

«Io riesco a vedervi» disse «ma…»

«Ma cosa? Ma cosa?»

«Certamente voi siete… ho sentito dire… pensavo…»

«Che cosa pensavi?» disse bruscamente Keli. Non gridava più ormai. Le sue parole venivano pronunciate come staffilate incandescenti.

La donna collassò in un ammasso singhiozzante. Keli rimase lì, battendo un piede per qualche istante, e poi la scosse gentilmente.

«C’è un mago in città?» chiese. «Guardami, guardami. C’è un mago qui, non è vero? Voi ragazze vi imboscate in continuazione per andare a parlare con i maghi! Dove abita?»

La donna le rivolse un volto rigato di lacrime, combattendo contro i propri istinti che le dicevano che la principessa non esisteva.

«Ehm… mago, sì… Bentagliato, a Wall Street…»

Le labbra di Keli si contrassero in un fugace sorriso. Si chiese dove venissero tenuti i suoi mantelli, ma la fredda ragione le suggerì che sarebbe stato maledettamente più semplice per lei trovarseli da sola piuttosto che cercare di costringere la domestica a rendersi conto della sua presenza. Aspettò un attimo, osservando attentamente mentre la donna la smetteva di singhiozzare, si guardava attorno con un vago smarrimento e si affrettava ad uscire dalla stanza.

Mi ha già dimenticato, pensò lei. Si guardò le mani. Eppure sembrava abbastanza solida.

Doveva essere una magia.

Girovagò nella camera dei guardaroba e aprì qualche armadio, andando a tentativi, finché non trovò un mantello nero con il cappuccio. Se lo mise addosso e sfrecciò via sul corridoio e giù lungo le scale della servitù.

Non era più passata da quella parte da quando era bambina. Quello era il mondo degli armadi della biancheria, dei nudi pavimenti e degli ottusi camerieri. Puzzava di croste di pane leggermente ammuffite.

Keli vi passò attraverso come uno spettro legato alla terra. Aveva coscienza delle zone della servitù, più o meno come la gente ha coscienza, a determinati livelli nella propria testa, delle fognature o dei canali di scolo. Lei sarebbe stata pronta ad ammettere che sebbene i servitori si assomigliassero tutti moltissimo, essi dovevano possedere qualche fattore caratterizzante nei loro lineamenti attraverso il quale i loro vicini e i loro cari potevano, presumibilmente, identificarli; tuttavia non era pronta a vedere Moghedron, il degustatore di vini, che aveva visto fino ad allora soltanto in uniforme ufficiale muoversi come un galeone a gonfie vele, seduto nella sua dispensa con la giacchetta aperta a fumare la pipa.

Un paio di serve le passarono accanto senza gettarle una seconda occhiata, ridacchiando. Lei si affrettò ulteriormente, rendendosi conto, in qualche strano modo che era come se lei si fosse introdotta abusivamente nel suo stesso castello.

E questo, comprese, succedeva perché quel castello non era affatto suo. Il mondo rumoroso che aveva attorno, con le lavanderie fumanti e le fredde dispense, era il mondo di se stesso. Lei non poteva possederlo. Semmai era esso che possedeva lei.

Prese una coscia di pollo dalla tavola della cucina più grande, una specie di spelonca in cui erano allineate così tante pentole che, alla luce dei suoi fuochi, sembrava quasi una sala delle armature per tartarughe, e provò il poco familiare brivido del furto. Furto! Nel suo proprio regno! E il cuoco la guardò passandole direttamente attraverso, con gli occhi vitrei quanto un maiale in salmi.

Keli corse attraverso i cortili delle scuderie e sgusciò fuori dal cancello posteriore, passando oltre un paio di sentinelle i cui sguardi fissi non riuscirono nemmeno a notarla.

Per le strade la situazione non era altrettanto orripilante, ma lei continuava a sentirsi stranamente nuda. Era snervante trovarsi in mezzo alle persone che si facevano gli affari propri senza preoccuparsi di lanciarti uno sguardo, quando la tua intera esperienza del mondo, fino a quel momento, era stata rivolta tutta verso una singola persona. I pedoni cozzarono contro la singola persona e rimbalzarono via, chiedendosi brevemente contro che cosa avessero urtato e la singola persona dovette parecchie volte allontanarsi in fretta dalla via per non essere investita dai carri.