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E così fu lasciato all’oste il compito di incamminarsi barcollando attraverso la stanza, di allungare la mano e di passare le dita sulla superficie familiare e rassicurante del legno del portone. Era solido, intatto, tutto quello che un portone doveva essere.

Tutti avevano visto Morty correrci attraverso per tre volte. L’unica cosa era che non l’aveva aperto.

Binky scalpitò per raggiungere una certa altitudine, sollevandosi quasi verticalmente con le zampe, mandando l’aria e il suo fiato ad avvolgersi dietro di sé in una specie di scia di vapore. Morty si teneva aggrappato con le ginocchia, le mani e, soprattutto, con la forza di volontà, col volto seppellito nella criniera del cavallo. Non guardò verso il basso finché l’aria attorno a lui non fu gelida e inconsistente quanto il sugo di un ospizio.

Sopra la sua testa, le Luci del Centro brillavano silenziosamente attraverso il cielo invernale. Sotto…

…si notava una specie di sottocoppa rovesciata, del diametro di parecchie miglia, argentea al chiarore delle stelle. Il ragazzo poteva vederci delle luci all’interno. Le nuvole ci scorrevano dentro.

No. Osservò più attentamente. Le nuvole stavano sicuramente fluttuando verso di esso, c’erano delle nuvole al suo interno, ma le nuvole che si trovavano dentro erano più esili, si muovevano in una direzione leggermente differente e, a dire il vero, non sembrava che avessero molto a che fare con quelle che stavano fuori. C’era anche qualcos’altro… oh, sì, le Luci del Centro. Esse conferivano alla notte all’esterno dell’emisfero fantasma una leggera sfumatura verdastra, ma, sotto la volta, non se ne scorgeva traccia.

Era come guardare in un pezzo di un mondo diverso, quasi identico all’originale, che era stato innestato sul Disco. Il tempo atmosferico era un po’ differente lì dentro e le Luci del Centro non vi si notavano, quella sera.

E il Disco lo stava attaccando, circondando e respingendo nella non esistenza. Morty non poteva notare da lassù che esso stesse diventando sempre più piccolo, ma nell’orecchio della sua mente riusciva a percepire lo sfrigolio di locusta di quella cappa mentre essa passava attraverso il territorio, mutando nuovamente le cose in quelle che sarebbero dovute essere. La realtà stava guarendo se stessa.

Morty sapeva, senza nemmeno doverci pensare, che cosa c’era al centro della cupola. Era ovvio anche da lì che essa fosse sistemata esattamente al di sopra di Sto Lat.

Morty cercò di non pensare a che cosa sarebbe successo quando la cupola si fosse ridotta alla dimensione di una stanza, e poi a quella di una persona, infine a quella di un uovo. Non ci riuscì.

La Logica avrebbe detto a Morty che proprio in quello consisteva la sua salvezza. Nel giro di un paio di giorni il problema si sarebbe risolto da sé: i libri della biblioteca sarebbero stati nuovamente giusti, il mondo si sarebbe riassestato nella sua forma normale come una benda elastica. La Logica gli avrebbe detto che interferire una seconda volta con quel processo avrebbe soltanto peggiorato le cose. La Logica gli avrebbe detto tutto questo, se soltanto anche la Logica non si fosse presa la sua serata di libera uscita.

La luce viaggia piuttosto lentamente sul Disco a causa dell’effetto frenante dell’imponente campo magico e, al momento, la parte del Rim che ospitava l’isola di Krull si trovava direttamente sotto la piccola orbita del sole ed era, quindi, ancora primo pomeriggio. Era anche abbastanza caldo, visto che il Rim trattiene più calore e può contare quindi su un gradevole clima marittimo.

In effetti Krull, insieme con gran parte di quella che, per mancanza di una migliore parola, deve essere chiamata la zona costiera che si affacciava sul Bordo, era un’isola fortunata. I soli nativi Krulliani che non l’apprezzavano erano quelli che non guardavano dove mettevano i piedi oppure i sonnambuli e, a causa della selezione naturale, non erano rimasti molti rappresentanti di entrambe la categorie comunque. Tutte le società hanno la loro razione di persone che vivono ai margini di esse, tuttavia a Krull queste non avevano mai una opportunità di rientrare entro il margine.

Terpsic Mims non era un emarginato. Era un pescatore. C’è una bella differenza: pescare è più costoso. Tuttavia Terpsic era felice. Stava osservando una piuma infilzata su un turacciolo che si muoveva con grazia sulle delicate acque costeggiate dai canneti del fiume Hakrull e la sua mente era quasi completamente sgombra. L’unica cosa che avrebbe potuto disturbare il suo umore sarebbe stato, in realtà, catturare un pesce, in quanto catturare pesci era l’unico lato della pesca che lui temeva. Essi erano freddi, scivolosi, facili al panico e gli davano ai nervi e i nervi di Terpsic non erano in condizione ottimale.

Finché non catturava nulla, Terpsic Mims era uno dei pescatori più felici del Disco, visto che il fiume Hakrull si trovava a sette chilometri da casa sua e quindi a sette chilometri dalla signora Gwladys Mims, con la quale egli aveva vissuto sei mesi di felice vita coniugale. Questo era però successo una ventina di anni prima.

A Terpsic non spiaceva eccessivamente il fatto che un altro pescatore si sistemasse nelle sue vicinanze, lungo la riva. Ovviamente alcuni pescatori si sarebbero opposti ad una tale infrazione all’etichetta, ma per quanto riguardava Terpsic tutto quello che avesse effettivamente ridotto le sue possibilità di acchiappare una di quelle schifose bestiacce era il benvenuto. Con la coda dell’occhio notò che il nuovo arrivato pescava con la mosca, interessante passatempo che Terpsic aveva accantonato in quanto obbligava a rimanere a casa decisamente troppo a lungo per preparare tutto l’equipaggiamento.

Non aveva mai visto una mosca da pesca di quel tipo. Esistevano mosche umide e mosche secche, ma questa in particolare si proiettò nell’acqua con un gemito da denti a sega e fece scappare tutti i pesci all’indietro.

Terpsic osservò con affascinato orrore mentre l’indistinta figura, che si trovava dietro ai salici, continuava a gettare l’esca a ripetizione.

L’acqua si mise quasi a bollire mentre l’intera fauna ittica del fiume smaniava per allontanarsi in tutta fretta da quel terrore sibilante e, sfortunatamente, un grosso luccio impazzito abboccò all’amo di Terpsic a causa di un mero stato di confusione mentale.

In un momento l’uomo si trovò in piedi sulla riva e nell’istante successivo, in una tenebra verdastra e rimbombante, perdendo tutto il fiato in bolle, guardando la propria vita balenargli davanti agli occhi in un lampo e, perfino nel momento in cui stava affogando, temendo di rivedere il periodo che andava dal giorno del suo matrimonio al presente. Gli venne in mente che Gwladys sarebbe presto rimasta vedova e questo lo rallegrò un poco. In effetti Terpsic aveva sempre cercato di guardare il lato più allettante delle cose e si rese conto, mentre sprofondava felicemente nel limo, che da quel momento in poi la sua vita sarebbe soltanto potuta migliorare…

E una mano lo afferrò per i capelli e lo strattonò, riportandolo alla superficie che fu improvvisamente carica di dolore. Orribili macchie blu e nere gli fluttuarono davanti agli occhi. Sentiva i polmoni in fiamme. La sua gola era un canale di pura agonia.

Mani… mani fredde, mani congelanti, mani che sembravano guanti pieni di dadi… lo estrassero dall’acqua e lo rigettarono sulla riva su cui, dopo qualche vano tentativo di continuare ad affogare, lui si sentì alla fine rigettato in quella che passava per essere la sua vita.

Terpsic non si arrabbiava di frequente, visto che Gwladys non lo approvava. Però si sentiva preso in giro. Era venuto al mondo senza essere stato consultato, si era sposato perché Gwladys e suo padre avevano voluto che così fosse e ora la sola ultima realizzazione umana che era unicamente sua gli era stata così rudemente strappata via. Qualche secondo prima ogni cosa era stata tanto semplice. Adesso era di nuovo tutto complicato.

Non che lui volesse morire, questo era ovvio. Gli dei erano molto precisi rispetto all’argomento suicidio. Soltanto che non aveva desiderato di essere salvato.