«Chiudi il becco sulla parlata da maghi. Non so niente di parlata da maghi. Cerca di applicare il tuo cervello su questa roba, piuttosto.»
Morty abbassò nuovamente lo sguardo sulle nervature di linee. Era come se un ragno avesse tessuto una tela sulla pagina, fermandosi ad ogni congiunzione per segnare degli appunti. Morty fissò il libro finché non gli cominciarono a dolere gli occhi, aspettando una scintilla di ispirazione. Non ne venne fuori nemmeno una.
«Hai avuto fortuna?»
«Per me è puro klatchiano» disse Morty. «Non so nemmeno se si debba leggere dal basso verso l’alto oppure da un lato all’altro.»
«A spirale, dal centro verso l’esterno» intervenne Ysabell tirando su col naso dalla sua seggiola posta nell’angolo.
Le teste dei due collisero mentre entrambi guardavano il centro della pagina. La fissarono. Lei alzò le spalle.
«Mia madre mi ha insegnato come leggere la mappa dei nodi» disse lei «quando ero solita mettermi qui a ricamare. Me ne leggeva dei brani.»
«Puoi aiutarci?»
«No» disse Ysabell. Si soffiò il naso.
«Che vuol dire, no?» latrò Albert. «È troppo importante per qualsiasi scervellata…»
«Voglio dire» precisò Ysabell con un tono di voce da rasoio «che io posso farli e voi potete aiutarmi.»
La Corporazione dei Mercanti di Ankh-Morpork aveva cominciato da qualche tempo ad ingaggiare numerose bande di uomini, che avevano orecchie grosse quanto pugni e pugni grossi quanto sacchi di nocciole, il cui compito era quello di rieducare le persone traviate che pubblicamente mancavano di riconoscere i molteplici aspetti attraenti della loro elegante città. Tanto per fare un esempio il filosofo Catoaster era stato ritrovato a galleggiare nel fiume a faccia in giù, poche ore dopo avere coniato il famoso detto: "Quando un uomo è stanco di Ankh-Morpork, è stanco di fanghiglia all’altezza della caviglia".
Di conseguenza è molto prudente soffermarsi ampiamente su una… delle moltissime, ovviamente… su una delle cose che rende Ankh-Morpork rinomata tra le grandi città del Multiverso.
Si tratta del suo cibo.
Le arterie commerciali di mezzo Disco passano attraverso la città oppure lungo il suo alquanto fangoso fiume. Più di metà delle tribù e delle razze del Disco hanno rappresentanti che abitano all’interno del suo territorio caoticamente esteso. Ad Ankh-Morpork le cucine del mondo collidono: sui menu si trovano mille varietà di vegetali, millecinquecento formaggi, duemila spezie, trecento tipi di carne, duecento di selvaggina, cinquecento generi diversi di pesce, cento variazioni dello stesso tipo di pasta, settanta uova di un tipo o dell’altro, cinquanta insetti, trenta molluschi, venti serpenti assortiti ed altri rettili e qualcosa di marrone chiaro e bitorzoluto conosciuto come il tartufo migratorio di acquitrino klatchiano.
I suoi ristoranti vanno da quelli opulenti, in cui le porzioni sono minuscole ma le stoviglie sono d’argento, a quelli riservati, in cui si rumoreggia che alcuni dei più esotici abitanti del Disco mangino qualsiasi cosa riescono a ingozzare a quattro palmenti.
La Casa delle Costolette di Harga, giù all’imbarcadero, non è probabilmente elencata fra i ristoranti più illustri della città, provvedendo, come fa, al tipo di clientela corpulenta che predilige la quantità e distrugge i tavoli se non l’ottiene. Non viene frequentata per moda o per esotismo, i clienti si buttano sui cibi convenzionali quali embrioni di uccelli senza ali, organi macinati inseriti in una pelle di intestino, fette di carne di cinghiale, semi di vegetale macinati e cotti gettati in grasso animale o, come si dice nel loro ambiente, uova, salsicce, pancetta e fette di pane abbrustolito.
Si tratta del classico genere di ristorante che non ha bisogno di un menu. Basta dare un’occhiata sul grembiule di Harga.
Eppure, bisognava ammetterlo, quel nuovo cuoco sembrava conoscere il mestiere. Harga, una specie di pubblicità vivente della sua merce ad alto tasso di carboidrati, guardava raggiante una stanza piena di clienti soddisfatti. Ed era anche un lavoratore veloce! A dire il vero veloce in maniera quasi sconcertante.
Dette un colpo sul passa-vivande.
«Doppie uova, patatine fritte, fagioli e un trollburger, senza cipolle» gracchiò.
«D’ACCORDO.»
Lo sportello si richiuse e qualche secondo dopo i due piatti vennero spinti al di là di esso. Harga scosse la testa con entusiastico stupore.
Era stato così per tutta la serata. Le uova erano chiare e luccicanti, i fagioli brillavano come rubini e le patatine fritte erano di quella fragranza dorata dei corpi abbronzati su spiagge esclusive. L’ultimo cuoco che Harga aveva avuto aveva tirato fuori le patatine come fossero piccoli sacchetti di carta pieni di pus.
Harga si gettò attorno un’occhiata nel ristorante denso di vapore. Nessuno lo stava guardando. Sarebbe arrivato a capo di questa faccenda. Bussò nuovamente sul passa vivande.
«Un tramezzino di alligatore» disse. «E fallo sve…»
Lo sportello si aprì di colpo. Dopo pochi secondi, Harga si fece coraggio e sbirciò sotto il coperchio del lungo piatto da portata che aveva di fronte. Non avrebbe potuto dire che si trattava di un alligatore e non avrebbe nemmeno potuto dire che non lo era. Bussò ancora una volta sullo sportello.
«D’accordo» disse «non mi sto lamentando, voglio soltanto sapere come hai fatto a fare tanto in fretta.»
«IL TEMPO NON È IMPORTANTE.»
«Dici?»
«ESATTAMENTE.»
Harga decise di non mettersi a discutere.
«Be’, stai facendo un lavoro maledettamente buono, ragazzo» disse.
«COME SI DICE QUANDO UNO SI SENTE CALDO E CONTENTO E DESIDERA CHE LE COSE RIMANGANO SEMPRE COSÌ?»
«Penso che la potresti chiamare felicità» rispose Harga.
All’interno della piccola, ingombra cucina, ricoperta da strati di grasso decennali, la Morte si girava di scatto e turbinava su se stessa, tagliando, affettando e friggendo. Le padelle balenavano attraverso il vapore rancido.
Aveva aperto la porta sulla fresca aria notturna e una dozzina di gatti del quartiere erano entrati dentro, attirati dalle ciotole di latte e carne… quelli migliori che Harga aveva, se soltanto lo avesse saputo!… che erano state piazzate in posizione strategica su tutto il pavimento. Di tanto in tanto, la Morte si fermava nel suo lavoro e accarezzava uno dei gatti dietro le orecchie.
«Felicità» disse e rimase sorpresa dal suono della sua stessa voce.
Bentagliato, mago e Reale Riconoscitore per nomina della regina, si trascinò fino all’ultimo dei gradini della torre e si appoggiò contro la parete, aspettando che il cuore gli smettesse di pulsare furiosamente.
A dire il vero la torre non era particolarmente alta, era soltanto alta per Sto Lat. Per la tipica progettazione e il profilo assomigliava al solito genere di torre nella quale imprigionare principesse: essa veniva però usata principalmente per immagazzinare mobili vecchi.
Tuttavia offriva una vista insuperabile della città e della Pianura Sto, vale a dire che si poteva vedere una impressionante quantità di cavoli.
Bentagliato arrivò fino ai merli sgretolati della torre e guardò fuori nella foschia del giorno. Essa era, forse, un po’ più fosca del solito. Se si sforzava, riusciva a intravvedere una specie di tremolio nel cielo. Se poi impegnava a fondo la propria immaginazione, poteva sentire una specie di ronzio fuori, nei campi di cavoli, un suono simile a quello che produce qualcuno che frigge le locuste. Rabbrividì.
In un momento come quello le sue mani dettero automaticamente qualche colpetto sulle tasche e non trovarono null’altro se non un mezzo sacchetto di gelatine, squagliatesi in un ammasso appiccicoso, e un torsolo di mela. Nessuna delle due cose gli offriva una grande consolazione.
Quello che Bentagliato desiderava era ciò che qualsiasi normale mago avrebbe desiderato in un momento simile e cioè qualcosa da fumare. Avrebbe potuto uccidere per un sigaro e si sarebbe potuto spingere fino ad una ferita superficiale per un mozzicone schiacciato. Cercò di ricomporsi. La determinazione era fondamentale per la fibra morale: l’unico problema era che la fibra non apprezzava affatto i sacrifici che lui stava facendo per essa. Si diceva che un mago veramente grande dovesse trovarsi costantemente sotto pressione. In quel momento si sarebbe potuto usare Bentagliato come corda da arco.