Passarono venti minuti. Le espressioni scivolavano sul volto del vecchio mago come ombre di nuvole sul fianco di una collina. Di tanto in tanto sussurrava qualcosa a se stesso come "glielo avevo detto" oppure "non me lo sarei mai aspettato" oppure "bisognerebbe dirlo subito alla Padrona".
Alla fine sembrò aver raggiunto un accordo con se stesso, si inginocchiò con circospezione e tirò fuori un tubo ammaccato da sotto il letto. Lo aprì con una certa difficoltà e srotolò una tunica grigia e impolverata dalla quale caddero al suolo palline di naftalina e lustrini ossidati. La indossò, spazzolò via con le mani il grosso della polvere e strisciò nuovamente sotto il letto. Si sentì una sequela di improperi attutiti, l’occasionale tintinnio di porcellane e, alla fine, Albert emerse tenendo in mano un bastone più alto di lui.
Era più spesso di qualsiasi altro bastone normale, principalmente a causa delle incisioni che lo ricoprivano da cima a piedi. Esse erano, a dire il vero, alquanto indistinte, ma davano l’impressione che, chi avesse potuto vederle meglio, se ne sarebbe certamente pentito.
Si diede un’altra spazzolatina e si esaminò con espressione critica nello specchio del lavabo.
A quel punto disse: «Cappello. Niente cappello. Devo avere un cappello per realizzare magie. Maledizione.»
Camminò con passo deciso fuori dalla stanza e tornò dopo un quarto d’ora di strenuo lavoro che incluse un grosso buco circolare lasciato sul tappeto della camera di Morty, l’asportazione della carta argentata dalla parte posteriore dello specchio della stanza di Ysabell, il recupero di ago e filo dalla cassetta che si trovava sotto il lavandino della cucina e la sottrazione di qualche lustrino dal fondo della cassapanca dei vestiti. Il risultato finale non era precisamente quanto gli sarebbe piaciuto e tendeva a cascargli sopra un occhio, sulle ventitré, tuttavia era nero e aveva sopra stelle e lune che dichiaravano che il suo proprietario era, senza la minima ombra di dubbio, un mago, anche se, magari, un mago alquanto disperato.
Si sentì vestito in maniera adeguata per la prima volta da duemila anni. Era una sensazione sconcertante e lo obbligò a riflettere per qualche secondo prima di scalciare da una parte il tappetino che aveva accanto al letto e di usare il bastone per tracciare un cerchio sul pavimento.
Dove la punta del bastone passava, lasciava una linea di brillante ottarino, l’ottavo colore dello spettro, il colore della magia, il pigmento dell’immaginazione.
Egli segnò otto punti sulla sua circonferenza e li unì per formare un ottogramma. Un cupo pulsare cominciò a riempire la stanza.
Alberto Malich si pose al centro del cerchio e brandì il bastone sopra la testa, sentì il solletichìo del potere dormiente che si risvegliava lentamente ed in maniera determinata, come una tigre che cammina con passo felpato. Esso innescò vecchi ricordi di potenza e di magia che si misero a ronzare attraverso gli attici carichi di ragnatele della sua mente. Si sentì vivo per la prima volta da secoli.
Si passò la lingua sulle labbra. Il rumore pulsante si era dissolto, lasciando uno strano tipo di silenzio di attesa.
Malich sollevò la testa e gridò una singola sillaba.
Una fiamma blu e verdastra si sprigionò dalle due estremità del bastone. Vampate di fiamme color ottarino si sollevarono dagli otto punti fissati sull’ottogramma e avvilupparono il mago. Tutto ciò non era assolutamente necessario per la realizzazione dell’incantesimo, ma i maghi ritenevano che le apparenze avessero sempre una certa importanza…
E così valeva anche per le sparizioni. Egli scomparve.
Venti stratoemisferici frustavano il mantello di Morty.
«Dove dobbiamo andare prima?» gli strillò Ysabell in un orecchio.
«Bes Pelargic!» gridò Morty, mentre la burrasca faceva turbinare via le sue parole.
«Dove sta?»
«Impero Agateo! Continente Contrappeso!»
Indicò verso il basso.
Non stava ancora forzando Binky, al momento, sapendo quante miglia avessero ancora da percorrere, e il grosso e bianco cavallo stava attualmente correndo ad un galoppo leggero al di sopra dell’oceano. Ysabell guardò giù sulle onde verdi e roboanti con le creste imbiancate di spuma e si strinse più forte a Morty.
Morty cercò di scrutare oltre il banco di nuvole che contraddistingueva il distante continente e resistette all’urgenza di spronare Binky col piatto della spada. Non aveva mai colpito il cavallo e non era completamente sicuro di che cosa sarebbe successo qualora ci avesse provato. Tutto ciò che poteva fare era attendere.
Gli apparve una mano, da sotto un braccio, che teneva un tramezzino.
«Ce ne sono col prosciutto oppure con formaggio e mostarda» disse lei. «Potresti anche mangiare, tanto non si può fare niente altro.»
Morty gettò un’occhiata al triangolo di pane ripieno e cercò di pensare quando fosse stata l’ultima volta che aveva mangiato. Sicuramente doveva avere superato il periodo di tempo a portata di un orologio… non aveva bisogno di un registro per calcolarlo. Prese il tramezzino.
«Grazie» disse, nel modo più gentile che riuscì ad esprimere.
Il piccolo sole rotolava giù verso l’orizzonte, trascinandosi dietro la pigra luce del giorno. Le nuvole davanti a loro si infittivano e risultavano profilate di rosa e arancione. Dopo qualche tempo, Morty riuscì a distinguere la foschia più scura della terra sotto di loro che presentava, qui e lì, le luci di una città.
Mezz’ora dopo era certo di riuscire a vedere i singoli edifici. L’architettura Agatea era incline ad usare tozze piramidi.
Binky scese un po’ di quota finché i suoi zoccoli si trovarono pochi metri al di sopra del mare. Morty esaminò nuovamente la clessidra e, con delicatezza, tirò le redini per dirigere il cavallo verso il porto che si trovava leggermente più in direzione del Rim rispetto alla loro attuale rotta.
C’erano poche navi all’ancora, nella maggior parte dei casi si trattava di mercantili da costa dotati di una singola vela. L’Impero non aveva incoraggiato i suoi sudditi ad allontanarsi troppo, per paura che essi potessero vedere cose che avrebbero potuto turbarli. Per lo stesso motivo era stata costruita una grande muraglia che circondava l’intero paese, costantemente pattugliata dalla Guardia Celeste, la cui principale funzione era quella di pestare pesantemente i piedi di qualsiasi abitante riteneva potesse avere desiderio di uscire qualche minuto per prendersi una boccata d’aria fresca.
La cosa non succedeva frequentemente perché la maggior parte dei sudditi dell’Imperatore del Sole erano abbastanza contenti di vivere all’interno della Muraglia. È un dato di fatto che ognuno si viene a trovare necessariamente o da una parte o dall’altra di un muro e così l’unica cosa da fare è dimenticarsene oppure cercare di sviluppare dei piedi molto forti.
«Chi governa questo posto?» chiese Ysabell, mentre passavano sopra al porto.
«C’è una specie di Imperatore Bambino» disse Morty. «Ma l’uomo che conta in realtà è il Gran Visir, immagino.»
«Non bisogna mai fidarsi di un Gran Visir» esclamò Ysabell con tono saggio.
E, a dire il vero, l’Imperatore del Sole non lo faceva. Il Visir, il cui nome era Nove Specchi Girevoli, aveva delle idee molto chiare rispetto a chi dovesse governare il paese, e cioè che sarebbe dovuto essere lui, e adesso il bambino era diventato grande a sufficienza da porre domande del tipo: "Non pensi che la muraglia sembrerebbe più bella se avesse dei grossi portali?" e "Già, ma che cosa c’è dall’altra parte?" e aveva deciso che, nell’interesse dello stesso Imperatore, quello sarebbe dovuto essere dolorosamente avvelenato e seppellito nella calce viva.
Binky atterrò sul ghiaietto ben rastrellato che si trovava all’esterno del palazzo basso e dalle molte stanze, che rispecchiava severamente l’armonia dell’universo.[8] Morty scivolò giù dalla sella ed aiutò a scendere anche Ysabell.
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Il giardino di pietre della Pace e della Semplicità Universale, sistemato su ordinazione del vecchio Imperatore Unico Specchio del Sole
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