Robert Silverberg
Mutazione
Chi conosce lo spirito dell’uomo che sale verso l’alto, e lo spirito della bestia che scende verso la terra?
1
Era tornato sul Mondo di Holman, dopo tutto. Non sapeva bene il perché. Chiamatela un’attrazione irresistibile; chiamatelo sentimentalismo; chiamatela stupidità. Gundersen non aveva mai pensato di rivedere quel posto. Invece era lì, in attesa di atterrare, e sullo schermo c’era il Mondo di Holman, un poco più grande della Terra: un mondo che si era preso i dieci anni più importanti della sua vita, un mondo dove aveva appreso delle cose su se stesso che non avrebbe voluto sapere. Il segnale rosso stava lampeggiando nel salone. La nave sarebbe atterrata fra breve. Malgrado tutto, stava tornando. Vide il manto di nubi che copriva le zone temperate, e le grandi calotte ghiacciate, e la striscia nero-azzurra dei tropici bruciati. Ricordava di aver attraversato il Mare di Polvere sotto il sole fiammeggiante del tramonto, e ricordava un viaggio silenzioso e deprimente lungo un fiume sotto pergolati di foglie cinquettanti, appuntite come pugnali, e ricordava cocktail dorati sulla veranda di una stazione nella giungla, la Notte delle Cinque Lune, con Seena al suo fianco e un gregge di nildor che muggivano nella macchia. Era stato tanto tempo prima. Adesso i nildor erano tornati padroni del Mondo di Holman. Gundersen aveva avuto difficoltà ad accettarlo. Forse questa era la vera ragione per la quale era tornato: per vedere come se la cavavano da soli i nildor.
— Attenzione, a tutti i passeggeri nel salone — si sentì una voce dall’altoparlante. — Entreremo nell’orbita di atterraggio per Belzagor fra quindici minuti. Vi preghiamo di tornare ai vostri bozzoli.
Belzagor. Era così che chiamavano il pianeta adesso. Il nome indigeno, il mondo dei nildor. A Gundersen sembrava un nome da mitologia assira. Naturalmente si trattava di una pronuncia abbellita; dalla bocca di un nildor sarebbe uscito più come un Bllls’grr. Ma ormai Belzagor era. Avrebbe chiamato il pianeta con il nome che ora portava, se così doveva fare. Cercava di non recare mai inutili offese a esseri alieni.
— Belzagor — disse. — Ha un suono voluttuoso, vero? Scorre sulla lingua.
La coppia di turisti accanto a lui, nel salone della nave, annuì. Erano sempre d’accordo con tutto quello che Gundersen diceva. Il marito, grassoccio, pallido, vestito troppo elegantemente, disse: — Lo chiamavano ancora Mondo di Holman l’ultima volta che ci siete stato, vero?
— Oh, sì — disse Gundersen. — Ma questo era ai bei vecchi tempi dell’imperialismo, quando un terrestre poteva chiamare un pianeta come gli pareva. Adesso è finita.
Le labbra della moglie del turista si strinsero in quel suo tipico modo contratto, dismenorreico. Gundersen provava un perverso piacere nell’infastidirla. Durante tutto il viaggio aveva recitato la parte di un personaggio alla Kipling: l’ex amministratore coloniale che torna a vedere quale orrendo pasticcio hanno combinato gli indigeni amministrandosi da soli. Era un’esagerazione, una distorsione del suo vero atteggiamento, ma qualche volta gli piaceva indossare una maschera. I turisti (otto in tutto) lo guardavano con un misto di reverenza e disprezzo mentre faceva lo spaccone: un grosso uomo dalla pelle chiara, con il marchio dell’esperienza extraterrestre stampata sui lineamenti. Lo disapprovavano, disapprovavano l’immagine che dava di se stesso; e tuttavia sapevano che aveva sofferto e faticato e lottato sotto un sole straniero, e c’era del fascino in questo.
— Si fermerà all’albergo? — chiese il turista.
— Oh, no. Andrò subito nella foresta, nella zona delle nebbie. Laggiù… vedete? Nell’emisfero settentrionale, quel banco di nuvole a metà strada. Il gradiente termico è molto ripido: tropici e artico praticamente fianco a fianco. Nebbia. Vi ci porteranno a fare un giro. Io ho degli affari da sbrigare.
— Affari? Credevo che questi nuovi mondi indipendenti fossero fuori dalla zona di penetrazione economica che…
— Non affari commerciali — disse Gundersen. — Affari personali. Rimasti in sospeso. Qualcosa che non sono riuscito a scoprire durante il mio servizio qui. — Il segnale di avvertimento lampeggiò di nuovo, con più insistenza. — Vogliate scusarmi. Adesso è davvero tempo di entrare nel bozzolo.
Andò nella sua cabina e si preparò all’atterraggio. Una rete schiumosa uscì dalle filiere e lo avvolse. Chiuse gli occhi. Sentì la spinta della decelerazione, quella curiosa e arcaica sensazione che risaliva ai primi tempi dei viaggi spaziali. La nave scese verso il pianeta mentre Gundersen dondolava sospeso, isolato dalle conseguenze peggiori del cambiamento di velocità.
L’unico spazioporto di Belzagor era quello che i terrestri avevano costruito più di cento anni prima. Si trovava ai tropici, alla foce del grande fiume che scorreva nell’unico oceano di Belzagor. Fiume di Madden, Oceano Benjamini… Gundersen ignorava del tutto i nomi nildor. Lo spazioporto era automatico, per fortuna. Apparecchiature ad alto livello di sicurezza facevano funzionare il faro di atterraggio; sistemi di sorveglianza omeostatici mantenevano la pista pavimentata e tagliavano la giungla avanzante. Solo macchine; era poco realistico aspettarsi che i nildor mantenessero operativo uno spazioporto, e impossibile tenerci una squadra di terrestri a farlo. Gundersen sapeva che c’erano ancora un centinaio di terrestri su Belzagor, dopo la ritirata generale, ma non erano il genere di persone adatte a far funzionare uno spazioporto. E in ogni caso, c’era un trattato. Le funzioni amministrative dovevano essere esplicate solo dai nildor.
Atterrarono. Il bozzolo di schiuma si dissolse a un segnale. Uscirono dalla nave.
L’aria aveva un forte odore tropicale: terra grassa, foglie marce, escrementi di animali della giungla, aroma cremoso di fiori. Era la prima sera. Un paio di lune erano spuntate. Come sempre nell’aria c’era la minaccia di pioggia, l’umidità era al 99 per cento, probabilmente. Ma la minaccia quasi mai si materializzava. I temporali erano rari in questa fascia tropicale. L’acqua si condensava semplicemente nell’aria, in continuazione, impercettibilmente, ricoprendo i corpi di piccole goccioline. Gundersen vide dei fulmini lampeggiare dietro le cime degli alberi di hullygully ai margini della pista. Una hostess guidò i nove passeggeri. — Da questa parte, prego — disse vivacemente, dirigendosi verso l’unico edificio.
Sulla sinistra tre nildor sbucarono dalla macchia, e scrutarono solennemente i nuovi venuti. I turisti spalancarono la bocca e indicarono. — Guardate! Li vedete! Sono come elefanti! Sono nili… nildor?
— Sì, nildor — disse Gundersen. L’odore acuto delle grosse bestie si sparse sul campo. Un maschio e due femmine, giudicò Gundersen, in base alla grandezza delle zanne. Erano più o meno della stessa altezza, più di tre metri, con la pelle verde cupo tipica dei nildor dell’emisfero occidentale. Occhi grandi come piatti lo guardavano con moderata curiosità. La femmina dalle corte zanne di fronte a loro sollevò la coda e lasciò tranquillamente cadere una valanga di escrementi fumanti color porpora. Gundersen sentì dei suoni indistinti, profondi, ma da quella distanza non riuscì a capire cosa stessero dicendo. Non riusciva a immaginarseli a far funzionare uno spazioporto. A far funzionare un pianeta. Ma lo facevano. Lo facevano.
Non c’era nessuno nell’edificio. Alcuni robot, che facevano parte della rete omeostatica, stavano riparando una parete, dove il rivestimento di plastica aveva presumibilmente ceduto all’assalto delle spore; prima o poi la decomposizione della giungla arrivava dappertutto, in quella parte del pianeta. Ma questa era l’unica attività visibile. Non c’era alcuna dogana. I nildor non avevano una burocrazia del genere. Non gli importava quello che uno portava sul loro mondo. I nove passeggeri avevano subito un’ispezione doganale sulla Terra, prima della partenza. Alla Terra importava, e molto, cosa veniva introdotto nei pianeti sottosviluppati. Non c’era neppure un ufficio della compagnia di navigazione, né un cambiavalute, né un’edicola, nessuna delle altre cose che uno normalmente si aspetta in uno spazioporto. Soltanto un grande capannone nudo, che un tempo era stato il centro di un florido avamposto coloniale, ai tempi in cui il Mondo di Holman era stato proprietà della Terra. A Gundersen sembrava di vedere i fantasmi di quei giorni, intorno a sé: figure in abiti tropicali color kaki che portavano messaggi, supervisori al carico che agitavano fogli di inventario, tecnici di computer drappeggiati con festoni di perline di memoria, portatori nildor carichi di prodotti destinati all’esportazione. Ora tutto era immobile. L’armeggiare dei robot echeggiava nel vuoto.