— Fare ammenda per peccati sconosciuti è privo di significato — disse il nildor. — Ma in ogni caso noi non desideriamo scuse. La tua redenzione dal peccato è affare tuo, non nostro. Forse troverai qui questa redenzione, come speri. Avverto già un gradito cambiamento nella tua anima, e questo conterà molto a tuo favore.
— Ho il tuo permesso per andare a nord, allora? — chiese Gundersen.
— Non così in fretta. Rimani un po’ qui come nostro ospite. Dobbiamo pensare. Puoi andare a riva, adesso.
Il congedo era chiaro. Gundersen ringraziò il molte-volte-nato per la sua pazienza, non senza qualche compiacimento per la maniera in cui aveva condotto la conversazione. Aveva sempre mostrato deferenza verso i molte-volte-nati (anche un imperialista alla Kipling sapeva che era meglio mostrarsi rispettosi verso i venerabili capi tribù), ma ai tempi della Compagnia non era mai stata più che una finzione per lui, una dimostrazione esteriore di umiltà, dal momento che il potere vero lo deteneva l’agente di settore della Compagnia, non un qualsiasi nildor, per quanto venerabile. Adesso, naturalmente, il vecchio nildor aveva il potere di lasciarlo fuori dalla zona delle nebbie, e poteva magari vedere una forma di giustizia nel bandirlo da essa. Ma Gundersen sentiva che il suo atteggiamento di deferenza e di scuse era stato ragionevolmente sincero, e che questa sincerità si era comunicata in parte al nildor. Sapeva che non poteva ingannare il molte-volte-nato, facendogli credere che un vecchio funzionario della Compagnia come lui fosse improvvisamente ansioso di umiliarsi di fronte alle ex vittime dell’espansionismo terrestre, ma se non era riuscito a dimostrare un minimo di sincerità, non aveva alcuna possibilità di ottenere il permesso di cui aveva bisogno.
D’improvviso, mentre Gundersen era ancora a una buona distanza dalla spiaggia, qualcosa lo colpì con tremenda violenza fra le spalle, scagliandolo intontito e ansimante nell’acqua, a faccia in avanti.
Mentre andava sotto, un pensiero gli attraversò la mente: che Vol’himyor l’avesse assalito a tradimento, colpendolo con la proboscide. Un colpo simile poteva facilmente essere fatale, se inferto con vere intenzioni omicide. Sputando il liquido del lago che gli aveva riempito la bocca, le braccia parzialmente intorpidite a causa del colpo, Gundersen riemerse con cautela, aspettandosi di vedere il vecchio nildor sopra di lui, pronto a menare il colpo di grazia.
Aprì gli occhi, avendo qualche momentanea difficoltà a metterli a fuoco. No: il molte-volte-nato era lontano, e guardava in un’altra direzione. Poi Gundersen sentì un curioso formicolio premonitore, e abbassò la testa appena in tempo per evitare di essere decapitato da qualsiasi cosa l’aveva colpito prima. Affondato nell’acqua fino al naso, la vide girare in alto, una spessa verga giallastra, come un boma fuori controllo. Sentì delle altissime grida di dolore e avvertì delle ondate spazzare il lago. Si guardò intorno.
Una dozzina di sulidoror erano entrati in acqua, e stavano uccidendo un malidar. Avevano arpionato la bestia colossale con bastoni appuntiti; adesso il malidar si agitava nell’agonia e sferzava la coda, ed era stata questa a colpire Gundersen. I cacciatori si erano disposti a ventaglio nell’acqua bassa, immersi fino alla vita, la fitta pelliccia inzaccherata e arruffata. Ciascun gruppo teneva la corda di un arpione, e stavano a poco a poco trascinando il malidor sulla riva.
Gundersen non era più in pericolo, ma continuò a restare basso nell’acqua, trattenendo il respiro e ruotando le spalle per assicurarsi che non ci fossero ossa rotte. La coda del malidar doveva averlo appena sfiorato, la prima volta; sarebbe sicuramente stato ucciso al secondo colpo, se non si fosse abbassato. Cominciava a sentirsi indolenzito, e mezzo affogato a causa dell’acqua che aveva ingoiato. Si chiese quando avrebbe cominciato a sentirsi ubriaco.
I sulidoror avevano trascinato a terra la loro preda. Soltanto la coda del malidar e le grosse gambe posteriori, palmate, rimanevano nell’acqua, muovendosi a scatti. Il resto dell’animale, cinque volte la lunghezza di un uomo, pesante tonnellate, era arenato, e i sulidoror lo stavano metodicamente infilzando con lunghi bastoni, uno in ciascun arto anteriore e parecchi nella larga testa a forma di cuneo. Qualche nildor osservava l’operazione con moderata curiosità. La maggior parte non ci badava. I restanti malidaror continuavano a brucare le alghe, come se nulla fosse successo.
Un ultimo colpo con un bastone spezzò la colonna vertebrale del malidar. L’animale ebbe un tremito e giacque immobile.
Gundersen si affrettò a uscire dall’acqua, con rapide bracciate, poi camminò sul fango spiacevolmente voluttuoso, e finalmente uscì barcollando sulla spiaggia. Le ginocchia d’improvviso gli cedettero, e cadde in avanti, tremante e ansimante, e vomitò. Un rivoletto di liquido gli uscì dalle labbra. Dopo, si rotolò su un fianco e osservò i sulidoror tagliare blocchi giganteschi di pallida carne rosa dai fianchi del malidar, distribuendola. Altri sulidoror erano usciti dalle capanne per partecipare al festino. Gundersen rabbrividì. Si sentiva come sotto shock, e passarono alcuni minuti prima che si rendesse conto che la causa dello shock non era solo il colpo che aveva ricevuto e l’acqua che aveva ingoiato, ma anche la consapevolezza che un atto di violenza era stato commesso di fronte a un branco di nildor, e i nildor non sembravano affatto disturbati dalla cosa. Aveva creduto che quelle creature pacifiche avrebbero reagito con orrore allo squartamento di un malidar. Ma semplicemente non gli interessava. Lo shock che Gundersen provava era lo shock della delusione.
Un sulidor gli si avvicinò e si fermò accanto a lui. Gundersen guardò a disagio la figura pelosa che lo dominava. Il sulidor teneva in mano un pezzo di carne di malidar, grande come la testa di Gundersen.
— Per te — disse il sulidor, in lingua nildor. — Mangi con noi?
Non attese risposta. Gettò il pezzo di carne in terra, accanto a Gundersen, e tornò dai suoi compagni. Lo stomaco di Gundersen si rivoltò. Non aveva nessuna voglia di carne cruda, in quel momento.
Sulla spiaggia d’improvviso era calato un profondo silenzio.
Lo stavano tutti guardando, sulidoror e nildor.
5
Gundersen si rimise in piedi, tremando. Risucchiò aria calda nei polmoni e guadagnò un po’ di tempo inginocchiandosi sulla riva del lago per lavarsi la faccia. Trovò i vestiti che si era levato, e ci mise qualche minuto a metterseli. Adesso si sentiva un po’ meglio; ma il problema della carne cruda rimaneva. I sulidoror si godevano il loro festino strappando la carne a brandelli e ripulendo le ossa, e ogni tanto guardavano dalla sua parte per vedere se avrebbe accettato la loro ospitalità. I nildor, che naturalmente non avevano toccato la carne, sembravano anch’essi curiosi circa la sua decisione. Se avesse rifiutato la carne avrebbe offeso i sulidoror? Se l’avesse mangiata, si sarebbe dimostrato altrettanto bestiale agli occhi dei nildor? Concluse che era meglio ingoiare qualche pezzetto di carne come gesto di buona volontà verso i bipedi dall’aria minacciosa. I nildor, dopo tutto, non sembravano disturbati dal fatto che i sulidoror mangiassero carne; perché avrebbe dovuto infastidirli se un terrestre, un noto carnivoro, faceva lo stesso?
Avrebbe mangiato la carne. Ma l’avrebbe mangiata alla maniera terrestre.
Strappò qualche foglia di una pianta acquatica e le distese per formare una stuoia; vi appoggiò la carne. Dalla tunica prese la torcia a fusione, la regolò su larga apertura e bassa intensità, e la passò sulla carne, finché la superficie esterna non fu bruciacchiata e sfrigolante. Con un raggio più stretto tagliò la carne in pezzetti più maneggevoli. Poi si sedette a gambe incrociate, prese un pezzo e lo addentò.
La carne era morbida, simile a formaggio, intramezzata da filamenti duri che formavano una complicata ragnatela. Facendosi forza, ne riuscì a ingoiare tre pezzi. Quando decise di averne avuto abbastanza, si alzò, ringraziò i sulidoror, e si inginocchiò accanto all’acqua e ne raccolse un po’ fra le mani. Aveva bisogno di un digestivo.