Durante tutto questo tempo nessuno gli parlò o gli si avvicinò.
I nildor erano usciti tutti dall’acqua, poiché la notte si avvicinava. Si erano sistemati in parecchi gruppi, a una certa distanza dalla riva. Il festino dei sulidoror continuava rumorosamente, ma si stava avvicinando alla fine; già parecchie piccole bestie-spazzino si erano unite al banchetto, e si erano messe all’opera intorno alla metà inferiore del corpo del malidar, mentre i sulidoror finivano l’altra parte.
Gundersen si guardò intorno alla ricerca di Srin’gahar. C’erano delle cose che desiderava chiedergli.
Lo disturbava ancora il fatto che i nildor avessero accettato con tanta freddezza l’uccisione nel lago. Si rese conto che aveva sempre considerato i nildor più nobili degli altri grossi animali del pianeta perché non uccidevano se non provocati molto gravemente, e qualche volta neppure in questo caso. Ecco una razza intelligente immune dal peccato di Caino. E Gundersen vedeva in questo un corollario: che i nildor, dal momento che non uccidevano, avrebbero considerato l’uccidere come un atto detestabile. Adesso sapeva che il suo ragionamento era erroneo, perfino ingenuo. I nildor non uccidevano per il semplice fatto che non mangiavano carne; ma la superiorità morale che aveva attribuito loro era in effetti un prodotto della sua immaginazione colpevole.
La notte giunse con tropicale rapidità. Una singola luna brillava in cielo. Gundersen vide un nildor che gli sembrava Srin’gahar e andò da lui.
— Ho una domanda da farti, Srin’gahar, amico del mio viaggio — cominciò Gundersen. — Quando i sulidoror sono entrati in acqua…
Il nildor disse gravemente. — Commetti un errore. Io sono Thali’vanoom della terza nascita.
Gundersen farfugliò una scusa e si voltò, maledicendosi. Che tipico sbaglio terrestre, pensò. Ricordava il suo vecchio capo di settore che commetteva lo stesso errore dozzine di volte, confondendo irrimediabilmente un nildor con un altro, e borbottando irritato: “Non riesco a distinguere fra di loro questi bestioni! Perché non si mettono dei cartellini?” L’estremo insulto, l’incapacità di riconoscere gli indigeni come individui. Gundersen si era sempre fatto un punto d’onore nell’evitare simili insulti gratuiti. E adesso, in quel momento delicato, in cui tutto dipendeva dal guadagnarsi il favore dei nildor. …
Si avvicinò a un secondo nildor, e si accorse solo all’ultimo momento che anche questi non era Srin’gahar. Si ritrasse, con quanta più grazia possibile. Al terzo tentativo, finalmente trovò il suo compagno di viaggio. Srin’gahar era tranquillamente seduto contro un piccolo albero, le spesse gambe piegate sotto il corpo. Gundersen gli porse la domanda, e Srin’gahar disse: — Perché la vista della morte violenta dovrebbe sconvolgerci? I malidaror non hanno g’rakh, dopo tutto. Ed è evidente che i sulidoror devono mangiare.
— Non hanno g’rakh? — disse Gundersen. — È una parola che non conosco.
— È la qualità che separa gli esseri dotati di anima, da quelli che non ne sono dotati — spiegò Srin’gahar. — Senza g’rakh una creatura non è che una bestia.
— I sulidoror hanno g’rakh?
— Naturalmente.
— E così pure i nildor, ovviamente. Ma i malidaror no. E i terrestri?
— È del tutto chiaro che i terrestri hanno g’rakh.
— E uno può liberamente uccidere una creatura a cui manchi questa qualità?
— Se uno ha la necessità di farlo, sì — disse Srin’gahar. — Sono cose elementari. Non possedete questi concetti sul vostro mondo?
— Sul mio mondo — disse Gundersen — esiste una sola specie cui sia stato riconosciuto il g’rakh, perciò forse dedichiamo a queste faccende troppo poca attenzione. Sappiamo che qualsiasi essere non appartenga alla nostra specie, deve mancare di g’rakh.
— Perciò quando arrivate su un altro mondo, avete difficoltà ad accettare la presenza di g’rakh in altri esseri? — chiese Srin’gahar. — Non hai bisogno di rispondere. Capisco.
— Posso farti un’altra domanda? — disse Gundersen. — Perché questi sulidoror sono qui?
— Gli permettiamo di stare qui.
— In passato, all’epoca in cui la Compagnia regnava su Belzagor, i sulidoror non uscivano mai dalla zona delle nebbie.
— Non permettevamo loro di venire qui, allora.
— Ma adesso sì. Perché?
— Perché adesso è più facile per noi farlo. In passato c’erano delle difficoltà.
— Che genere di difficoltà? — insistette Gundersen.
A bassa voce Srin’gahar disse: — Devi chiedere questo a qualcuno che sia nato più volte di me. Io sono nato una volta sola, e molte cose sono altrettanto strane per me quanto per te. Guarda, un’altra luna sale in cielo! Alla terza luna danzeremo.
Gundersen alzò gli occhi e vide il piccolo disco bianco che si muoveva rapidamente, basso nel cielo, sfiorando le punte degli alberi. Le cinque lune di Belzagor erano un insieme molto assortito: la più vicina appena al di fuori del Limite di Roche, la più lontana appena visibile in una notte serena. In qualsiasi momento, due o tre erano nel cielo notturno, ma la quarta e la quinta avevano orbite così eccentriche che non potevano essere mai viste da vaste regioni del pianeta, e su altre zone passavano non più di tre o quattro volte per anno. Una notte all’anno tutte e cinque le lune apparivano contemporaneamente, lungo una striscia larga dieci chilometri che incrociava l’equatore a un angolo di circa 40 gradi, da nord-est a sud-ovest. Gundersen aveva visto una Notte delle Cinque Lune una volta soltanto.
I nildor avevano cominciato a muoversi verso la riva.
La terza luna apparve, roteando in senso retrogrado da sud.
Dunque, li avrebbe visti danzare ancora. Aveva assistito alle loro cerimonie una sola volta, agli inizi della sua carriera, quando era in servizio alle Cascate di Shangri-la, nei tropici settentrionali. Quella notte i nildor si erano ammassati appena a monte delle cascate, su entrambe le rive del Fiume di Madden, e per molte ore, dopo il calar del sole, le loro grida confuse si erano sentite perfino sopra il ruggito dell’acqua. E alla fine Kurtz, che era anch’egli stanziato a Shangri-la, aveva detto: “Vieni, andiamo a goderci lo spettacolo!” e aveva guidato Gundersen nella notte. Era accaduto sei mesi prima dell’episodio alla stazione dei serpenti, e Gundersen allora non sapeva ancora come fosse fatto Kurtz. Ma lo capì subito, dopo che Kurtz si unì ai nildor nella loro danza. I grossi animali erano raggruppati in approssimativi semicerchi, e marciavano avanti e indietro, lanciando acute grida con le proboscidi, facendo tremare il terreno, e d’improvviso ecco Kurtz in mezzo a loro, le braccia alzate, il petto nudo coperto di sudore e luccicante alla luce delle lune, che ballava con lo stesso fervore degli indigeni, lanciando alte grida, battendo i piedi, gettando indietro la testa. E i nildor stavano formando un gruppo attorno a lui, lasciandogli ampio spazio per entrare completamente in uno stato di frenesia, adesso correndo verso di lui, adesso arretrando, una sistole e diastole di feroce potenza. Gundersen guardava stupefatto e intimorito, e non si mosse quando Kurtz lo chiamò perché si unisse alla danza. Guardò per quelle che gli sembrarono ore, ipnotizzato dal bum bum bum bum dei nildor danzanti, finché alla fine riuscì a uscire dalla sua trance, e cercò con gli occhii Kurtz e lo trovò ancora in movimento, una figura scheletrica, ossuta che si muoveva a scatti, come un pupazzo appeso a fili invisibili, fragile all’aspetto malgrado la sua estrema altezza all’interno del cerchio di nildor. Kurtz non poteva sentire le parole di Gundersen né accorgersi della sua presenza, e alla fine Gundersen tornò da solo alla stazione. Il mattino seguente trovò Kurtz spento ed esausto, accasciato sulla panca di fronte alla cascata. Kurtz si limitò a dire: “Avresti dovuto restare. Avresti dovuto restare”.