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Gli antropologi avevano studiato quei riti. Gundersen aveva letto gli articoli scritti sull’argomento, imparando quello che c’era da imparare. Evidentemente la danza era preceduta e circondata da un dramma, un episodio parlato simile alle sacre rappresentazioni medievali, che riproduceva qualche mito nildor di suprema importanza, e che serviva insieme come intrattenimento e come esperienza religiosa estatica. Sfortunatamente il linguaggio del dramma era in un’antica lingua liturgica, di cui i terrestri non comprendevano una parola, e i nildor, che non avevano esitato a insegnare ai primi visitatori terrestri la loro lingua moderna, non avevano mai offerto alcun indizio circa la natura di quest’altra. Gli antropologi avevano osservato un particolare che adesso Gundersen trovava incoraggiante: invariabilmente, entro pochi giorni dall’esecuzione di quel particolare rito, gruppi di nildor del branco si mettevano in marcia per il paese delle nebbie, presumibilmente allo scopo i sottoporsi alla rinascita.

Si chiese se potesse trattarsi di una cerimonia di purificazione, un mezzo per entrare in uno stato di grazia prima della rinascita.

I nildor si erano tutti raccolti accanto al lago. Srin’gahar fu uno degli ultimi ad andare. Gundersen sedeva da solo sul pendio, osservando le forme massicce che si riunivano. I movimenti contrari delle lune frammentavano le ombre dei nildor, e la fredda luce trasformava le loro lisce pelli verdi in mantelli neri e corrugati. Guardando alla sua sinistra, Gundersen vide i sulidoror accovacciati davanti alle loro capanne, esclusi dalla cerimonia ma non dalla vista di essa.

Nel silenzio, si udì un flusso di parole basso, chiaro, potente. Si sforzò di cogliere qualche indizio sul loro significato, una porta magica che lo introducesse alla comprensione del linguaggio segreto. Ma non giunse nessuna comprensione. Era Vol’himyor a parlare, il vecchio molte-volte-nato, che recitava parole chiaramente familiari a tutti i partecipanti, una invocazione, un introito. Poi venne un lungo intervallo di silenzio, poi la risposta di un secondo nildor dal lato opposto del gruppo, che ripeté esattamente i ritmi e le sinuosità delle parole di Vol’himyor. Ancora silenzio; poi una replica di Vol’himyor, più vivace. Avanti e indietro si spostò il centro del servizio, e lo scambio fra i due celebranti si trasformò in quello che, per dei nildor, era un dialogo sorprendentemente veloce. Circa ogni dieci battute il branco tutto intero ripeteva quello che il celebrante aveva detto, spandendo oscure vibrazioni nella notte.

Dopo circa dieci minuti, la voce di un terzo nildor si fece udire. Vol’himyor rispose. Un quarto attore entrò nella recita. Ora battute isolate giungevano a raffica da molti membri della congregazione. Nessuno sbagliava il tempo; nessun nildor si sovrapponeva alla battuta di un altro. Ciascuno sembrava sapere intuitivamente quando parlare, quando rimanere in silenzio. Il tempo accelerò. La cerimonia era diventata un mosaico di brevi frasi, che si levavano in rotazione casuale da ogni parte del gruppo. Alcuni nildor alzavano e abbassavano i piedi, senza mutare posizione.

Un fulmine squarciò il cielo. Malgrado l’atmosfera soffocante, Gundersen sentì un brivido. Si vide come un viaggiatore sulla Terra preistorica, che spiasse un grottesco conclave di mastodonti. Tutte le cose umane sembravano infinitamente lontane in quel momento. Il dramma stava raggiungendo un qualche genere di climax. I nildor mugghiavano, battevano i piedi, si chiamavano a vicenda con sbuffi tremendi. Si stavano disponendo in gruppi, lasciando delle corsie vuote. Ancora si sentivano frasi e risposte, amplificazioni antifonali di parole cariche di arcani significati. L’aria si fece più densa di vapori. Gundersen non riusciva più a sentire parole singole, solo accordi profondi di grugniti, ah ah ah ah, ah ah ah ah, il ritmo che ricordava di aver già udito alle Cascate di Shangri-la. Era un suono ansante adesso, estatico, una serie infinita di esalazioni sbuffanti, ah ah ah ah, ah ah ah ah, ah ah ah ah, con appena un intervallo fra ciascun gruppo di quattro battiti, e l’intera giungla pareva echeggiarne. I nildor non possedevano strumenti musicali di alcun tipo, ma a Gundersen sembrava che immensi tamburi stessero scandendo quel ritmo intenso e ipnotico. Ah ah ah ah. Ah ah ah ah. AH AH AH AH! AH AH ah AH!

E i nildor cominciarono a danzare.

Giù, sulla riva del lago, si muovevano dozzine di grandi forme scure, saltando come gazzelle: due passi avanti di corsa, un colpo più forte al terzo passo, il quarto per riprendere l’equilibrio. L’universo tremava. Boom boom boom boom. La fase precedente della cerimonia, il dialogo drammatico, che avrebbe potuto essere una sottile disquisizione filosofica, aveva lasciato completamente il posto a questa primordiale danza, questo tremendo ondeggiare di giganteschi corpi elefantini. Boom boom boom boom. Gundersen guardò alla sua sinistra e vide i sulidoror in trance, le teste pelose che si muovevano al ritmo della danza; ma nessuno dei bipedi si era alzato dalla posizione a gambe incrociate. Si accontentavano di ondeggiare e scuotere la testa, e di tanto in tanto di battere a terra con i gomiti.

Gundersen era tagliato fuori dal suo passato, perfino dal senso di appartenenza alla sua specie. Ricordi slegati affioravano. Era tornato alla stazione dei serpenti, prigioniero del veleno allucinogeno, trasformato in un nildor che ballava pesantemente nella giungla. Di nuovo si trovò sulla riva del grande fiume, assistendo a un’altra rappresentazione della medesima danza. E ricordava anche notti trascorse nella sicurezza di stazioni della Compagnia, nel folto della foresta, fra quelli della sua razza, mentre ascoltavano il calpestio delle zampe, in lontananza. In tutte queste occasioni Gundersen si era tirato indietro da qualsiasi possibile mistero gli avesse da offrire il pianeta; aveva chiesto il trasferimento dalla stazione dei serpenti piuttosto che assaggiare il veleno una seconda volta, e aveva rifiutato l’invito di Kurtz a unirsi alla danza, era rimasto all’interno delle stazioni quando il calpestio ritmico era iniziato nella foresta. Ma quella notte si sentiva molto lontano dalla sua razza. Sentiva un impulso irresistibile a unirsi a quella nera e incomprensibile frenesia sulla riva del lago. Qualcosa di mostruoso si era liberato dentro di lui, scatenato dalla ripetizione incessante di quel boom boom boom boom. Ma che diritto aveva di danzare alla maniera di Kurtz in una cerimonia aliena? Non osava intromettersi nel loro rituale.

Invece, si accorse di essersi incamminato giù per il pendio spugnoso verso il luogo dove danzavano ammassati i nildor.

Se riusciva a pensare a essi solo come elefanti che saltavano e sbuffavano, sarebbe andato tutto bene. Anche se riusciva a pensare a loro come selvaggi che facevano baccano, sarebbe andato tutto bene. Ma era inevitabile il sospetto che quella cerimonia di parole e danza contenesse un significato complesso per quella gente, e questa era la cosa peggiore. Potevano avere grosse gambe e corti colli e lunghe proboscidi dondolanti, ma questo non bastava a renderli elefanti, perché le triple zanne, le creste di aculei, l’anatomia aliena dicevano il contrario; e potevano essere privi di qualsiasi tecnologia, privi anche di scrittura, ma questo non li rendeva selvaggi, perché la complessità delle loro menti diceva il contrario. Poiché erano creature che possedevano g’rakh. Gundersen ricordava quando aveva innocentemente tentato di istruire i nildor nelle arti e nella cultura terrestre, nel tentativo di “migliorarli”; aveva voluto umanizzarli, innalzare il loro spirito, ma non aveva ottenuto nulla, e adesso scopriva che il suo spirito veniva attirato… in basso?… certamente al loro livello, dovunque fosse. Boom boom boom boom. I suoi piedi, con esitazione, assunsero il ritmo della danza, mentre si avvicinava al lago. Avrebbe osato? L’avrebbero schiacciato come blasfemo?