La hostess stava dicendo agli otto passeggeri: — La vostra guida sarà qui da un momento all’altro. Vi accompagnerà in albergo, e…
Anche Gundersen avrebbe dovuto andare all’albergo, almeno per quella notte. La mattina dopo sperava di trovare un mezzo di trasporto. Non aveva fatto piani precisi per il suo viaggio verso nord; sarebbe stato in gran parte improvvisato, una ricognizione nel passato.
Chiese alla hostess: — La guida è un nildor?
— Vuole dire un indigeno? Oh, no, è un terrestre, signor Gundersen. — Frugò in una pila di stampati. — Si chiama Van Beneker, e avrebbe dovuto essere qui almeno mezz’ora prima dell’atterraggio, perciò non capisco perché…
— La puntualità non è mai stato il forte di Van Beneker — disse Gundersen. — Ma eccolo che arriva.
Uno scarafaggio, molto arrugginito e macchiato a causa del clima, si era fermato all’ingresso dell’edificio, e da esso smontò un ometto dai capelli rossi, anch’egli molto arrugginito e macchiato a causa del clima. Indossava una tuta da lavoro spiegazzata e un paio di stivali da giungla alti fino al ginocchio. Era rado di capelli, e il cranio abbronzato traspariva attraverso le ciocche impomatate. Entrò nell’edificio e si guardò intorno, sbattendo le palpebre. Aveva occhi azzurro pallido, di un aspetto vagamente ipertiroideo.
— Van? — disse Gundersen. — Siamo qui, Van.
Il piccolo uomo venne verso di loro. Parlando in fretta, meccanicamente, disse mentre era ancora lontano: — Desidero porgere il benvenuto a voi tutti su Belzagor, com’è ora conosciuto il Mondo di Holman. Il mio nome è Van Beneker, e vi mostrerò tutto quello che è legalmente possibile mostrarvi di questo affascinante pianeta, e…
— Salve, Van — lo interruppe Gundersen.
La guida si arrestò, evidentemente irritata, a metà del suo discorsetto. Sbatté le palpebre e guardò meglio Gundersen. Alla fine disse, evidentemente senza crederci: — Il signor Gundersen?
— Soltanto Gundersen. Non sono più il tuo capo.
— Gesù, signor Gundersen. Gesù, è qui per il giro turistico?
— Non esattamente. Sono qui per un giro personale.
Van Beneker disse rivolto agli altri: — Vogliate scusarmi. Soltanto un minuto. — Alla hostess disse: — È tutto a posto. Può consegnarli ufficialmente a me. Mi prendo la responsabilità. Sono tutti qui? Uno, due, tre… otto. Perfetto. I bagagli vanno portati laggiù, accanto allo scarafaggio. Dite loro di aspettare. Vengo subito. — Prese Gundersen per un gomito. — Venga qui, signor Gundersen. Non si immagina che sorpresa sia. Gesù!
— Come te la passi, Van?
— Male. In che altro modo, su questo pianeta? Quando se n’è andato, esattamente?
— Nel 2240. L’anno dopo la cessione. Otto anni fa.
— Otto anni. E cosa ha fatto?
— Il ministero mi ha trovato un lavoro — disse Gundersen. — Mi do da fare. Ho accumulato un anno di ferie.
— Da passare qui?
— Perché no?
— A che scopo?
— Voglio andare nella zona delle nebbie — disse Gundersen, — Voglio incontrare i sulidoror.
— Non mi dica. E perché mai?
— Curiosità.
— Uno trova solo guai, lassù. Lei sa le storie che si raccontano, signor Gundersen. Non occorre che gli dica quanti ci sono andati, e quanti ne sono tornati. — Van Beneker rise. — Lei non ha fatto tutta questa strada solo per farsi quattro chiacchiere con i sulidoror. Scommetto che ha qualche altro scopo.
Gundersen evitò di rispondere. — Cosa fai adesso, Van?
— La guida turistica, soprattutto. Arrivano nove, dieci infornate all’anno. Li porto sull’oceano, poi gli faccio vedere un po’ della zona delle nebbie, poi facciamo un salto al Mare di Polvere. È un giretto niente male.
— Già.
— Per il resto del tempo, mi riposo. Parlo un sacco con i nildor, e qualche volta vado a trovare gli amici alle stazioni della giungla. Lei già conosce tutti, signor Gundersen. Siamo noi vecchi, ancora in circolazione.
— Che ne è di Seena Royce? — chiese Gundersen.
— È alle cascate di Shangri-la.
— È ancora bella?
— Lei crede di sì — disse Van Beneker. — Pensa di andare a trovarla?
— Naturalmente — disse Gundersen. — Intendo fare un pellegrinaggio sentimentale. Farò il giro di tutte le stazioni, per rivedere i vecchi amici. Seena, Cullen, Kurtz, Salamone. Tutti quelli che ancora ci sono.
— Alcuni sono morti.
— Quelli che ancora ci sono — ripeté Gundersen. Guardò il piccolo uomo e sorrise. — Sarà meglio che ti occupi dei tuoi turisti, adesso. Potremo parlare in albergo, questa sera. Voglio che mi racconti tutto quello che è successo mentre sono stato via.
— Niente di più facile, signor Gundersen. Posso farlo subito, in una sola parola. Marcio. Tutto sta marcendo. Guardi quella parete laggiù.
— Vedo.
— Adesso guardi i robot che la stanno riparando. Non sono molto lucidi, vero? Stano cedendo anche loro. Se si avvicina, potrà vedere le macchie sulla carrozzeria.
— Ma l’omeostasi…
— Sicuro. Tutto viene riparato, anche i robot di riparazione. Ma il sistema andrà a pezzi, prima o poi. Il marcio arriverà ai programmi di base, e allora non ci saranno più riparazioni, e questo mondo tornerà dritto all’età della pietra. Così finalmente i nildor saranno contenti. Io capisco quei grossi bastardi meglio di chiunque. So che non vedono l’ora che l’ultima traccia dei terrestri sparisca dal pianeta. Fanno finta di essere amici, ma il loro odio cova sotto la cenere, un odio tremendo, e…
— Dovresti occuparti dei tuoi turisti, Van — disse Gundersen. — Cominciano a spazientirsi.
2
Una carovana di nildor li avrebbe trasportati dallo spazioporto all’albergo: due terrestri ogni alieno, con Gundersen da solo, e Van Beneker con il bagaglio che faceva da capofila sul suo scarafaggio. I tre nildor che brucavano ai margini del campo si avvicinarono per arruolarsi nella carovana, e altri due emersero dalla macchia. Gundersen fu sorpreso che i nildor fossero ancora disposti a fare da bestie da soma per i terrestri. — Non gli importa — spiegò Van Beneker. — Gli piace farci dei favori. Li fa sentire superiori. Del resto non si accorgono quasi del peso. E non pensano che ci sia qualcosa di vergognoso nel farsi cavalcare.
— Quando ero qui ho avuto l’impressione che li offendesse — disse Gundersen.
— Da quando ce ne siamo andati, prendono cose del genere con più distacco. Comunque, come fai a essere sicuro di quello che pensano? Quello che pensano veramente, voglio dire.
I turisti erano un po’ allarmati all’idea di cavalcare i nildor. Van Beneker cercò di calmarli spiegando che era una parte importante dell’esperienza su Belzagor. E poi, aggiunse, le macchine non fanno una buona riuscita su questo pianeta, e non rimaneva quasi nessuno scarafaggio funzionante. Gundersen mostrò come si faceva a montare, a beneficio degli apprensivi nuovi arrivati. Batté sulla zanna sinistra del nildor, e l’alieno si inginocchiò in maniera elefantina, prima sulle zampe anteriori, poi su quelle posteriori. Il nildor contorse le spalle, dislocandole e creando una cavità in cui un uomo poteva comodamente cavalcare, e Gundersen montò afferrandosi alle corte corna rivolte all’indietro. La cresta di aculei che correva in mezzo al largo cranio dell’alieno cominciò a contrarsi. Gundersen lo riconobbe come un gesto di benvenuto; i nildor possedevano un ricco linguaggio di gesti, per cui utilizzavano non solo gli aculei, ma anche le lunghe proboscidi e le orecchie pieghettate. — Sssukh! - disse Gundersen, e il nildor si alzò. — Sei seduto bene? — chiese nella sua lingua. — Benissimo — disse Gundersen, deliziato nel ritrovare sulle labbra il vocabolario non dimenticato.