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Con goffaggine ed esitazione, gli otto turisti fecero come aveva fatto lui, e la carovana si mise in viaggio lungo la strada del fiume, verso l’albergo. Le lucciole spandevano un pallido chiarore sotto la coltre di alberi. Una terza luna era sorta, e le luci si mescolavano sotto le foglie, rivelando il fiume oleoso dalla rapida corrente, appena alla loro sinistra. Gundersen si pose alla coda della processione, nel caso qualche turista avesse delle difficoltà. Ci fu solo un momento di imbarazzo, quando un nildor si fermò e lasciò la fila. Infilò le triple punte delle zanne nella sponda del fiume per mangiarsi qualche bocconcino, poi riprese il suo posto. Ai vecchi tempi, Gundersen lo sapeva, questo non sarebbe mai successo. Allora ai nildor non era permesso avere grilli.

Si godette il viaggio. L’ondeggiare era piacevole, il passo era veloce senza essere fastidioso. Che brave bestie sono questi nildor, pensò Gundersen. Forti, docili, intelligenti. Quasi allungò una mano per accarezzare gli aculei della sua cavalcatura, ma all’ultimo momento decise che sarebbe sembrato un gesto di condiscendenza. I nildor sono qualcosa di più di elefanti dall’aria buffa, si disse. Sono esseri intelligenti, la forma di vita dominante del loro pianeta, gente, e non dimenticartene.

Ben presto Gundersen sentì lo scrosciare della risacca. Erano vicini all’albergo.

Il sentiero si allargò, diventando una radura. Davanti, una delle turiste indicò qualcosa nella giungla; suo marito alzò le spalle e scosse la testa. Quando Gundersen arrivò in quel punto, vide cosa aveva attirato la loro attenzione. Delle forme nere erano accovacciate fra gli alberi, mentre altre si muovevano avanti e indietro. Erano a malapena visibili nell’ombra. Mentre il nildor di Gundersen passava, due delle forme indistinte emersero dalla giungla, fino ai bordi del sentiero. Erano bipedi massicci, alti quasi tre metri, coperti da una spessa pelliccia rosso scuro, con grosse code che si muovevano pigramente nella penombra verdastra. Occhi socchiusi, ridotti a fessure anche in quella debole luce, scrutavano la processione. Nasi gommosi, lunghi come quelli di tapiri, soffiavano rumorosamente.

Una donna si voltò cautamente e chiese a Gundersen: — Cosa sono?

— Sulidoror. La seconda specie. Vengono dalla zona delle nebbie. Questi sono esemplari settentrionali.

— Sono pericolosi?

— Non li definirei tali.

— Se sono animali settentrionali, come mai sono qui? — volle sapere suo marito.

— Non so bene — disse Gundersen. Lo chiese alla sua cavalcatura, e ricevette una risposta. — Lavorano all’albergo — spiegò Gundersen. — Fattorini. Sguatteri. — Gli sembrò strano che i nildor usassero i sulidoror come servitori nell’albergo dei terrestri. Neppure prima dell’indipendenza i sulidoror erano stati usati come servi. Ma naturalmente allora c’erano un sacco di robot.

L’albergo apparve davanti a loro. Sorgeva sulla costa, una cupola geodesica luccicante che non mostrava alcun segno esteriore di decadimento. Prima dell’indipendenza era stato una stazione turistica di lusso, creata appositamente per gli amministratori al massimo livello della Compagnia. Gundersen ci aveva trascorso molte ore felici. Smontò, e insieme a Van Beneker aiutò i turisti a fare altrettanto. Tre sulidoror erano in piedi all’ingresso dell’hotel. Van Beneker rivolse loro dei gesti energici, e i tre cominciarono a prelevare i bagagli dal vano di carico dello scarafaggio.

Entrato, Gundersen individuò rapidamente sintomi di declino. Un tappetto di muschio-di-tigre aveva cominciato a trasbordare da una striscia di giardino ornamentale, lungo la parete della hall, e stava per arrivare alle belle lastre nere del pavimento; vide le piccole bocche piene di denti che cercavano speranzose di azzannarlo, mente passava accanto. Senza dubbio i robot di manutenzione erano stati un tempo programmati per tagliare il muschio ornamentale lungo il bordo dell’aiuola, ma il programma doveva essersi sottilmente alterato con il trascorrere degli anni, cosicché adesso al muschio era permesso di introdursi anche all’interno dell’edificio. Forse i robot non c’erano più, e i sulidoror che li avevano sostituiti erano poco scrupolosi nelle loro mansioni di giardinieri. E c’erano altri indizi che il controllo stava sfuggendo di mano.

— I ragazzi vi mostreranno le camere — disse Van Beneker. — Potete scendere per i cocktail quando siete pronti. La cena sarà servita fra un’ora e mezzo circa.

Un gigantesco sulidor condusse Gundersen a una stanza al terzo piano, con vista sul mare. Automaticamente, offrì alla grande creatura una moneta; ma il sulidor si limitò a guardarlo senza comprendere, e non osò prenderla. Parve a Gundersen che ci fosse una tensione repressa nel comportamento del sulidor, un interno ribollire; ma forse era solo la sua immaginazione. Ai vecchi tempi i sulidoror raramente si facevano vedere al di fuori della zona delle nebbie, e Gundersen non si sentiva a suo agio con loro.

In lingua nildor disse: — Da quanto tempo lavori all’hotel? — ma il sulidor non rispose. Gundersen non conosceva la lingua dei sulidoror, ma sapeva che le creature parlavano fluentemente il nildororu, oltre che il sulidororu. Pronunciando le parole più chiaramente, ripeté la domanda. Il sulidor si grattò la pelliccia con artigli luccicanti, e non disse nulla. Passando accanto a Gundersen, deopacizzò la parete-finestra, regolò i filtri atmosferici, e uscì solennemente.

Gundersen aggrottò la fronte. Rapidamente, si spogliò e si infilò sotto il pulitore. Un ronzio veloce di vibrazioni gli tolse di dosso lo sporco del viaggio. Prese dalla valigia un abito da sera e lo indossò: tunica grigia aderente, stivali lucidi, uno specchio per la fronte. Abbassò di qualche tono il colore dei capelli, da gialli a quasi castani.

D’improvviso si sentì molto stanco.

Era nei primi anni della mezza età, solo quarantotto, e normalmente viaggiare non gli faceva alcun effetto. Perché quella stanchezza, dunque? Si rese conto che nelle ultime ore si era irrigidito in maniera inconsueta. Da quando era tornato sul pianeta. Teso, inflessibile… incerto circa i motivi che l’avevano indotto a tornare, senza sapere come sarebbe stato accolto, forse un po’ in preda a sensi di colpa; e ora la tensione si faceva vedere. Toccò un pulsante e trasformò la parete in uno specchio. Sì, aveva la faccia tirata; gli zigomi, sempre prominenti, adesso sporgevano come lame, le labbra serrate, la fronte corrucciata. Il naso, sottile, era dilatato a causa delle narici gonfiate dalla tensione. Gundersen chiuse gli occhi, e cominciò un esercizio di distensione. Trenta secondi dopo aveva un aspetto migliore; ma gli ci voleva qualcosa da bere, decise. Scese nella hall.

Nessuno dei turisti era ancora arrivato. Le persiane erano aperte; si sentiva il mugghiare del mare, e odore di salsedine. Una linea bianca di sale accumulato si era formata lungo i margini della spiaggia. La marea era alta; soltanto le punte degli scogli frastagliati che circondavano la zona dei bagni erano visibili. Gundersen guardò l’acqua striata dalle luce delle lune, fissando il nero dell’orizzonte orientale. C’erano state tre lune anche l’ultima notte che aveva trascorso lì, quando avevano dato una festa di addio per lui. E alla fine dei festeggiamenti, lui e Seena erano andati a fare una nuotata di mezzanotte, sui bassifondi coperti dalla marea dove riuscivano appena a tenersi in piedi, e quando erano tornati a riva, nudi e incrostati di sale, avevano fatto all’amore dietro gli scogli, e lui l’aveva abbracciata per quella che, ne era certo, doveva essere l’ultima volta. E adesso era tornato.