Van Beneker portò da bere, e un altro spruzzo per sé. Gundersen accolse con sollievo quella pausa nella conversazione, e apparentemente anche Van Beneker, perché entrambi rimasero in silenzio a lungo, evitando di guardarsi negli occhi. Un sulidor entrò nel bar, e cominciò a raccogliere i vuoti, tenendosi chino per non toccare il soffitto a scala di terrestre. Il chiacchierio dei turisti si spense, mentre la creatura dall’aria feroce si muoveva nella stanza. Gundersen guardò verso la spiaggia. I nildor se n’erano andati. Una delle lune stava calando verso est, lasciando una traccia infuocata sull’acqua mossa. Si rese conto di aver dimenticato i nomi delle lune. Poco importava: i nomi dati dall’uomo erano storia morta, ormai. Alla fine disse a Van Beneker: — Come mai hai deciso di fermarti qui, dopo l’indipendenza?
— Mi sentivo a casa. Ero qui da venticinque anni. Perché avrei dovuto andare da un’altra parte?
— Nessun legame familiare?
— No. E poi qui si sta bene. Ho la pensione della Compagnia. Le mance dei turisti. Il salario dell’albergo. Abbastanza per procurarmi quello che mi serve. E quello che mi serve di più, sono gli spruzzi. Perché dovrei andarmene?
— Chi è il proprietario dell’hotel? — chiese Gundersen.
— La confederazione nildor del continente occidentale. La Compagnia l’ha passato a loro.
— E i nildor ti pagano un salario? Credevo che fossero al di fuori dell’economia monetaria galattica.
— Infatti. Hanno fatto degli accordi con la Compagnia.
— Vuoi dire che la Compagnia gestisce ancora l’hotel?
— Se si può dire che qualcuno lo gestisca, è la Compagnia, sì — concesse Van Beneker. — Ma non è una violazione delle leggi di indipendenza. C’è un solo dipendente. Io. Mi guadagno il salario con quello che pagano i turisti. Il resto che spendo viene importato dalla sfera monetaria. È tutto uno scherzo, Gundy, non vede? Un sistema studiato per permettermi di importare liquore, ecco tutto. L’hotel non è un’impresa commerciale. La Compagnia è davvero fuori da questo pianeta. Completamente.
— Va bene, va bene. Ti credo.
Van Beneker disse: — Che cosa cerca nella zona delle nebbie?
— Vuoi davvero saperlo?
— Mi aiuta a passare il tempo chiedere le cose.
— Voglio osservare la cerimonia di rinascita. Non l’ho mai vista, in tutto il tempo che sono stato qui.
Gli occhi sporgenti parvero sporgersi ancora di più. — Perché non vuole parlare seriamente, Gundy?
— Sono serissimo.
— È pericoloso immischiarsi nella faccenda della rinascita.
— Sono preparato a correre il rischio.
— Dovrebbe prima parlarne con qualcuno qui. Non è una cosa in cui dovremmo immischiarci.
Gundersen sospirò. — Tu l’hai vista?
— No. Mai. Né mi ha mai interessato vederla. Qualsiasi cosa facciano i sulidoror sulle montagne, che la facciano senza di me. Le dirò con chi parlarne, però. Seena.
— Ha visto la rinascita?
— Suo marito l’ha vista.
Gundersen provò una fitta di sgomento. — Chi è suo marito?
— Jeff Kurtz. Non lo sapeva?
— Che mi venga un accidente — mormorò Gundersen.
— Si chiede cosa abbia trovato in lui, eh?
— Mi chiedo come abbia trovato il coraggio di vivere con un uomo come quello. E poi parli del mio atteggiamento verso gli indigeni! Quello li trattava come se fossero sua proprietà, e…
— Vada a parlare a Seena, alle Cascate di Shangri-la. A proposito della rinascita. — Van Beneker rise. — Mi sta prendendo in giro, vero? Sa che sono ubriaco, e si diverte.
— No. Niente affatto. — Gundersen si alzò, a disagio. — Ho bisogno di dormire un po’.
Van Beneker lo seguì fino alla porta. Proprio mentre Gundersen usciva, l’ometto gli si avvicinò e disse: — Sa cosa stavano facendo i nildor sulla spiaggia, prima? Non lo facevano per i turisti. Lo facevano per lei. È il loro senso dell’umorismo. Buona notte, Gundy.
3
Gundersen si svegliò presto. Si sentiva la testa sorprendentemente limpida. Era appena spuntata l’alba, e il sole tinto di verde era basso nel cielo. Il cielo orientale, sull’oceano: un tocco piacevole che ricordava la Terra. Scese sulla spiaggia per una nuotata. Un lieve vento da mezzogiorno spingeva alcune nuvole nel cielo. Gli hullygully erano carichi di frutti; l’umidità era elevata come sempre; il tuono rumoreggiava dalle montagne che correvano in un arco parallelo alla costa, a una giornata di viaggio di distanza. Cumuli di escrementi di nildor erano sparsi lungo tutta la spiaggia. Gundersen camminò con cautela, a zig-zag, sulla sabbia che scricchiolava sotto i piedi, e si gettò di piatto fra le onde. Finì sotto il primo cavallone ricurvo, e con bracciate rapide e vigorose si diresse verso i bassifondi. La marea era bassa. Attraversò la striscia di sabbia emergente, e nuotò al di là di essa finché non si sentì stanco. Quando tornò a riva scoprì che altri due turisti erano appena tornati da una nuotata. Christopher e Miraflores. Gli sorrisero incerti. — Corroborante — disse lui. — Niente di meglio dell’acqua salata.
— Ma perché non tengono la spiaggia pulita? — chiese Miraflores.
Un sulidor scontroso servì la colazione. Frutta locale, pesce locale. L’appetito di Gundersen era immenso. Ingoiò tre fruttamari verde-dorati uno dopo l’altro, per incominciare, poi tolse abilmente le spine a un pesceragno intero e si infilò in bocca forchettate di dolce carne rosa, come se fosse impegnato in una gara di velocità. Il sulidor gli portò un altro pesce e una ciotola di candele di foresta, dall’aspetto fallico. Gundersen era ancora impegnato con queste, quando Van Beneker entrò, indossando abiti puliti, anche se logori. Aveva gli occhi iniettati di sangue e un’aria afflitta. Invece di unirsi a Gundersen al tavolo, si limitò a un sorriso di saluto e proseguì per la sua strada.
— Siedi con me, Van — disse Gundersen.
A disagio, Van Beneker accettò. — Circa ieri sera…
— Lascia perdere.
— Sono stato insopportabile, signor Gundersen.
— Avevi bevuto. Perdonato. In vino veritas. Mi chiamavi Gundy, ieri sera. Puoi farlo anche questa mattina. Chi prende il pesce?
— C’è uno sbarramento automatico appena a nord dell’albergo. Li prende e li spedisce dritti in cucina. Dio sa chi preparerebbe da mangiare qui, se non ci fossero le macchine.
— E chi raccoglie i frutti? Macchine?
— Lo fanno i sulidoror — disse Van Beneker.
— Da quando i sulidoror hanno cominciato a fare i lavori servili, su questo pianeta?
— Circa cinque anni fa. Sei forse. I nildor hanno preso l’idea da noi, immagino. Se noi potevamo farne portatori e bulldozer viventi, loro possono bene usare i sulidoror come camerieri. Dopo tutto, loro sono la specie inferiore.
— Ma pur sempre padroni di se stessi. Perché hanno accettato di fare da servitori? Cosa ci guadagnano.
— Non lo so — disse Van Beneker. — Quando mai qualcuno ha capito i sulidoror?
Vero, pensò Gundersen. Nessuno era mai riuscito a capire qualcosa delle relazioni fra le due specie intelligenti del pianeta. La stessa presenza di due specie intelligenti era contraria alla logica evolutiva generale dell’universo. Sia i nildor che i sulidoror si qualificavano a un rango autonomo, con livelli di percezione più elevati di quelli dei primati superiori; un sulidor era considerevolmente più intelligente di uno scimpanzé, e un nildor molto più intelligente ancora. Se non ci fossero stati nildor sul pianeta, la presenza dei soli sulidoror sarebbe stata sufficiente a obbligare la Compagnia ad abbandonarne il possesso, quando il movimento di decolonizzazione aveva raggiunto il suo vertice. Ma perché due specie, e come nasceva la strana, tacita relazione fra le due: i carnivori bipedi, che regnavano sulla zona delle nebbie, e i quadrupedi erbivori che dominavano i tropici? Come erano riusciti a dividersi il pianeta così bene? E perché questa divisione si stava incrinando, se veramente era questo che stava succedendo? Gundersen sapeva che esistevano antichi trattati fra queste creature, che c’era un sistema di diritti e prerogative, che ciascun nildor tornava nella zona delle nebbie quando giungeva il momento della sua rinascita. Ma non sapeva quale ruolo giocassero veramente i sulidoror nella vita e rinascita dei nildor. Nessuno lo sapeva. Il fascino di questo mistero, lo ammetteva, era una delle ragioni che l’aveva riportato sul Mondo di Holman, su Belzagor, adesso che aveva abbandonato le sue responsabilità amministrative ed era libero di rischiare la vita indulgendo a curiosità private. Il mutamento nella relazione nildor-sulidoror che sembrava essersi verificato intorno a quell’hotel lo preoccupava; era già stato abbastanza difficile comprendere quella relazione quando era stata statica. Naturalmente, le abitudini degli esseri alieni non erano affar suo. Niente era affar suo, di questi tempi. Quando uno non aveva incarichi, doveva darsene da solo. Perciò era lì per fare ricerche, apparentemente, ossia per curiosare e spiare. Messo in questi termini, il suo ritorno sul pianeta sembrava più un atto di libero arbitrio, e meno il cedimento a un impulso irresistibile, quale egli temeva che fosse.