Gundersen gettò un’occhiata a Srin’gahar. Gli aculei sulla cresta del nildor erano ritti: un segno di tensione, un segno forse di vergogna condivisa. Anche il nildor possedeva ricordi di quell’edificio. Gundersen entrò nella stazione, spingendo la porta semiaperta. Si staccò dai cardini, e un tremito musicale, whang whang whang, riverberò per tutto lo sferico edificio, spegnendosi in un tintinnio sommesso, confuso. Whang, e Gundersen risentì la chitarra di Kurtz, e gli anni svanirono e tornò a essere un nuovo venuto sul Mondo di Holman, in procinto di iniziare il suo primo periodo alla stazione dei serpenti, assegnato finalmente a quel luogo che era la fonte di tante chiacchiere. Sì. Dal sudario delle memorie giunse l’immagine di Kurtz. Eccolo, in piedi appena al di fuori della porta della stazione, incredibilmente alto, l’uomo più alto che Gundersen avesse mai visto, con un grande cranio pallido, calvo ed enormi occhi scuri incassati sotto arcate sopraccigliari da uomo primitivo, e un sorriso di denti scintillanti che andava da un’orecchia all’altra. La chitarra fece whang e Kurtz disse: — Troverai tanti motivi di interesse qui, Gundy. Questa stazione è un’esperienza unica. Abbiamo sepolto il tuo predecessore una settimana fa. — Whang. - Naturalmente devi imparare a stabilire una distanza fra te stesso e quello che succede qui. Questo è il segreto per mantenere la propria identità su un mondo alieno, Gundy. Comprendere l’estetica della distanza: tracciare una linea di confine attorno a se stessi e dire al pianeta: fin qui puoi arrivare e consumarmi, non oltre. Altrimenti il pianeta alla fine ti assorbirà e ti renderà parte di sé. Sono stato chiaro?
— Non proprio — disse Gundersen.
— Il significato si renderà manifesto, prima o poi. — Whang. - Vieni a vedere i serpenti.
Kurtz era cinque anni più anziano di Gundersen, e si trovava sul Mondo di Holman da tre anni più di lui. Gundersen l’aveva conosciuto di fama molto prima di incontrarlo. Tutti sembravano nutrire un timore reverenziale nei confronti di Kurtz, eppure era solo un assistente di stazione, che non era mai stato promosso al di sopra di questo basso rango. Dopo cinque minuti di contatto con lui, Gundersen credette di capire il perché. Kurtz dava un’impressione di instabilità… non esattamente un angelo caduto, ma certamente sul punto di cadere, Lucifero che discende dal mattino al mezzogiorno, alla sera rugiadosa, ma adesso solo al mattino della sua caduta. Uno non poteva affidare a un uomo come quello responsabilità importanti, finché non avesse compiuto la sua traiettoria e si fosse assestato nella sua condizione definitiva.
Entrarono insieme nella stazione dei serpenti. Kurtz allungò in alto una mano, passando sotto l’apparato di distillazione, e accarezzò i tubi e le valvole. Le sue dita erano come zampe di ragno, e la carezza era sorprendentemente oscena. All’estremità opposta della stanza c’era un uomo basso, massiccio, con capelli e sopracciglia nere, il supervisore della stazione, Gio’ Salamone. Kurtz fece le presentazioni. Salamone sorrise. — Fortunato — disse. — Come hai fatto a farti assegnare qui?
— Mi hanno mandato — disse Gundersen.
— Qualcuno gli ha fatto uno scherzo — suggerì Kurtz.
— Lo credo anch’io — disse Gundersen. — Tutti pensano che racconti balle quando dico che sono stato mandato senza averlo chiesto.
— Hanno messo alla prova la sua innocenza — mormorò Kurtz.
Salamone disse: — Bene, adesso che sei qui, sarà meglio che impari la nostra regola principale. Che consiste in questo: quando lascerai questa stazione non parlerai mai con nessuno di quello che succede qui. Capito? - aggiunse in italiano. — Adesso ripeti: “Giuro per il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e anche per Abramo, Isacco, Giacobbe, e Mosè…”
Kurtz soffocava dalle risate.
Esterrefatto, Gundersen disse: — Questo è un giuramento che non ho mai fatto.
— Salamone è un ebreo italiano — disse Kurtz. — Vuole prendere in considerazione tutte le possibilità. Non preoccuparti di giurare; ma ha ragione: quello che succede qui non è affare di nessun altro. Qualsiasi cosa tu possa aver sentito circa la stazione dei serpenti probabilmente è vero, ma non raccontare niente lo stesso quando te ne andrai. — Whang whang. - Adesso guardaci con attenzione. Evocheremo i demoni. Fai partire gli amplificatori, Gio’.
Salamone prese un sacco di plastica con dentro quella che sembrava farina dorata e lo trascinò verso la porta posteriore della stazione. Ne raccolse una manciata. Con un gesto rapido la gettò in aria; la brezza afferrò subito i minuscoli grani scintillanti e li trasportò in alto. Kurtz disse: — Ha appena sparso un migliaio di micro-amplificatori nella giungla. In dieci minuti coprono un raggio di dieci chilometri. Sono sintonizzati per raccogliere le frequenze della mia chitarra e del flauto di Gio’, e le risonanze rimbalzano su e giù dappertutto. — Kurtz cominciò a suonare, cogliendo una melodia a metà strada. Salamone tirò fuori un corto flauto traverso e intrecciò una melodia sua negli spazi lasciati da Kurtz. La loro musica diventò una sarabanda solenne, delicata, ipnotica, fatta di due o tre figure che si ripetevano senza fine e senza variazioni di volume e tono. Per dieci minuti non accadde nulla di insolito. Poi Kurtz accennò con la testa al margine della giungla. — Arrivano — sussurrò. — Noi siamo gli autentici e originali incantatori di serpenti.
Gundersen guardò i serpenti emergere dalla foresta. Erano lunghi quattro volte un uomo, grossi quanto il braccio di un uomo robusto. Delle pinne ondulate correvano lungo le loro schiene da un’estremità all’altra. La pelle era lucida, color verde pallido, ed evidentemente appiccicosa, perché a essa aderivano pezzi di foglie, terriccio, petali sgualciti. Al posto degli occhi avevano file di sensori circolari disposti lungo il fianco della pinna dorsale. La testa era tozza, la bocca una fessura, adatta soltanto per mordicchiare bocconi di terra. Dove avrebbero dovuto esserci le narici, sporgevano due aculei, lunghi come il pollice di un uomo, che diventavano cinque volte più lunghi nei momenti di tensione o quando il serpente era attaccato, e secernevano un liquido blu, un veleno. Malgrado le dimensioni delle creature, malgrado l’arrivo di una trentina di queste quasi contemporaneamente, Gundersen non le trovò paurose, anche se certamente si sarebbe sentito a disagio all’arrivo di un plotone di pitoni. Questi non erano pitoni. Non erano neppure rettili, ma creature di un ordine basso, in effetti vermi giganti. Erano pigri, privi di intelligenza apparente. Ma evidentemente reagivano con intensità alla musica. Li avevano attirati alla stazione, e ora si contorcevano in un orrendo balletto, cercando l’origine del suono. I primi stavano già entrando nell’edificio.
— Sai suonare la chitarra? — chiese Kurtz. — Tieni… basta che strimpelli un po’. La melodia non è importante, adesso. — Mise lo strumento nelle mani di Gundersen, che armeggiò un po’ con le dita, poi riuscì a tirar fuori una zoppicante imitazione della melodia di Kurtz, il quale nel frattempo fece scivolare un cappuccio rosa, a forma di tubo, sulla testa del serpente più vicino. Quando fu a posto, il cappuccio cominciò a contrarsi ritmicamente; i contorcimenti del serpente si fecero momentaneamente più intensi, la pinna si mosse in maniera convulsa, la coda sferzò il pavimento. Poi si calmò. Kurtz tolse il cappuccio e lo infilò sulla testa di un altro serpente, poi di un altro, e di un altro ancora.