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Tre giorni dopo, Gundersen chiese di essere trasferito dalla stazione dei serpenti. A quei tempi rimaneva facilmente sconvolto da ciò che era sconosciuto. L’unica reazione di Kurtz, quando Gundersen annunciò che se ne andava, fu una breve risatina brutale. Il normale turno di lavoro alla stazione era di otto settimane, delle quali Gundersen aveva fatto meno della metà. Non venne mai più assegnato lì.

Più tardi, raccolse tutte le chiacchiere che poté circa la stazione dei serpenti. Gli vennero raccontate storie vaghe, di depravazioni sessuali nella radura, di accoppiamenti fra terrestri e nildor, fra terrestri e terrestri; sentì sussurrare che coloro i quali bevevano abitualmente il veleno subivano cambiamenti terribili e permanenti del corpo; gli venne riferito che gli anziani dei nildor, nei loro privati concili, condannavano aspramente la perversa abitudine di andare alla stazione dei serpenti per bere ciò che gli uomini offrivano. Ma Gundersen non sapeva se queste chiacchiere fossero vere. Trovò difficile, negli anni successivi, guardare Kurtz negli occhi, nelle rare occasioni in cui si incontrarono. Talvolta trovava difficile anche vivere con se stesso. In qualche maniera periferica, era rimasto contaminato da quella singola ora di metamorfosi. Si sentiva come una vergine che fosse capitata per caso in un’orgia, e che ne fosse uscita defiorata, ma tuttavia ignorante di cosa le fosse successo.

I fantasmi svanirono. Il suono della chitarra di Kurtz si affievolì e svanì.

Srin’gahar disse: — Possiamo andare?

Gundersen uscì lentamente dalla stazione in rovina. — Qualcuno raccoglie ancora i succhi dei serpenti?

— Non qui — disse il nildor. Si inginocchiò. Il terrestre lo montò, e in silenzio Srin’gahar lo riportò sul sentiero che avevano seguito in precedenza.

4

Nel primo pomeriggio si avvicinarono all’accampamento dei nildor, che era la meta immediata di Gundersen. Per la maggior parte del giorno avevano viaggiato sulla vasta pianura costale, ma adesso il terreno declinò bruscamente, poiché nell’entroterra vi era una lunga e stretta depressione che correva da nord a sud, una profonda fenditura fra l’altopiano centrale e la costa. Avvicinandosi alla fenditura, Gundersen vide l’immensa devastazione del fogliame che segnalava la presenza di un grande branco di nildor nel raggio di pochi chilometri. Una cicatrice attraversava la foresta dal livello del terreno fino a circa due volte l’altezza di un uomo.

Perfino la fertilità tropicale e lunatica di quella regione non riusciva a tenere il passo con l’appetito dei nildor. Ci voleva un anno o più perché zone defoliate come quella riprendessero il loro aspetto normale. Tuttavia, malgrado l’impatto del branco, la foresta su tutti i lati della cicatrice era ancora più fitta che sulla pianura costiera. Quella era una giungla all’ennesima potenza, umida, scura, gocciolante. La temperatura era molto più alta che lungo la costa, e malgrado l’atmosfera non potesse essere più umida, c’era un senso di bagnato quasi tangibile nell’aria. Anche la vegetazione era diversa. Sulla pianura gli alberi tendevano ad avere foglie affilate, a volte in maniera pericolosa. Lì il fogliame era arrotondato, carnoso, pesanti dischi blu scuro, afflosciati, che luccicavano voluttuosamente ogni volta che un raggio di sole riusciva ad attraversare la coltre della foresta.

Gundersen e la sua cavalcatura continuarono a scendere, seguendo la linea della cicatrice. Costeggiarono un fiume che scorreva, perversamente, verso l’entroterra; il suolo era spugnoso, morbido, e spesso Srin’gahar si trovava a camminare nel fango sino al ginocchio. Stavano entrando in un grande bacino circolare, in quello che sembrava il punto più basso dell’intera regione. Dei ruscelli confluivano in esso da tre o quattro direzioni, formando un lago scuro, coperto di erbe; e attorno ai margini del lago c’era il branco di Srin’gahar. Gundersen vide parecchie centinaia di nildor che brucavano, dormivano, si accoppiavano, passeggiavano.

— Mettimi giù — disse, con sua stessa sorpresa. — Camminerò al tuo fianco.

Senza una parola, Srin’gahar lo lasciò smontare.

Gundersen rimpianse il suo impulso egualitario nel momento in cui mise piede a terra. I larghi piedi del nildor erano adatti ad affrontare il terreno fangoso, ma Gundersen scoprì che cominciava ad affondare se rimaneva fermo in uno stesso posto più di un momento. Ma ormai non sarebbe rimontato. Ogni passo era una lotta, ma lottò. Era anche teso, incerto sull’accoglienza che avrebbe ricevuto, e aveva fame, non avendo mangiato nulla durante il viaggio se non pochi fruttamari colti di passaggio da qualche albero. Il clima soffocante rendeva ogni respiro una battaglia. Si sentì molto sollevato quando il terreno divenne un po’ più solido, dopo un certo tratto. Qui una ragnatela di piante spugnose che si spandevano dal lago formava sotto il fango una piattaforma solida, se non rassicurante.

Srin’gahar sollevò la proboscide ed emise un fischio di saluto all’accampamento. Alcuni nildor risposero in maniera simile. A Gundersen, Srin’gahar disse: — Colui che è nato molte volte si trova ai margini del lago, amico del mio viaggio. Lo vedi, sì, in quel gruppo? Vuoi essere condotto da lui ora?

— Ti prego — disse Gundersen.

Il lago era soffocato da vegetazione galleggiante. Masse gibbose spuntavano ovunque alla superficie: foglie come cornucopie, sacche a forma di tazze, piene di spore, steli come corde intrecciate, tutto verde scuro contro il verde-azzurro dell’acqua. Attraverso questo labirinto vegetale si muovevano lentamente grandi mammiferi semiacquatici: una mezza dozzina di malidaror, i cui corpi tubolari, giallastri, erano quasi del tutto sommersi. Soltanto le protuberanze arrotondate delle loro schiene e i periscopi affioranti degli occhi montati su peduncoli erano visibili, e di tanto in tanto un paio di cavernose e sbuffanti narici. Gundersen poteva vedere gli immensi solchi che i malidaror avevano tagliato nella vegetazione quel giorno per nutrirsi, ma dalla parte opposta del lago le ferite stavano richiudendosi e nuova vegetazione si affrettava a riempire i vuoti.

Gundersen e Srin’gahar scesero verso l’acqua. D’improvviso il vento cambiò, e alle narici di Gundersen arrivò l’odore del lago. Tossì. Era come respirare i fumi di una tinozza di distilleria. Il lago era in fermentazione. L’alcool era un sottoprodotto della respirazione di quelle piante acquatiche, ed essendo privo di sbocchi, il lago diventava un’immensa botte di brandy. Sia l’acqua che l’alcool evaporavano a gran velocità, rendendo l’aria circostante non solo umida, ma anche inebriante; e durante secoli in cui l’evaporazione dell’acqua era stata superiore all’apporto dei ruscelli, la gradazione del residuo era costantemente aumentata. Quando la Compagnia governava il pianeta laghi come quello erano stati la rovina di più di un agente, Gundersen lo sapeva.

I nildor sembrarono prestargli scarsa attenzione, mentre si avvicinava. Gundersen era consapevole che ogni membro dell’accampamento in realtà lo stava osservando attentamente, ma tutti fingevano indifferenza, dedicandosi ai propri affari. Rimase perplesso vedendo una dozzina di rifugi di rami costruiti accanto a uno dei ruscelli. I nildor non vivevano in abitazioni di alcun genere; il clima lo rendeva inutile, e poi erano incapaci di costruire alcunché, non avendo organi di manipolazioni, a parte le tre “dita” all’estremità della proboscide. Studiò le rozze capanne, e dopo un momento gli venne in mente che aveva già visto strutture del genere: erano quelle dei sulidoror. Il mistero non faceva che infittirsi. Rapporti così stretti fra i nildor e i bipedi carnivori della zona delle nebbie erano una cosa del tutto nuova per lui. Vide i sulidoror medesimi, una ventina, seduti a gambe incrociate nelle loro capanne. Schiavi? Prigionieri? Amici della tribù? Nessuna di quelle ipotesi aveva senso.