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— Vede tra queste immagini qualcuno che riconosce in volto? — chiese Shaked.

Epstein assentì, ma dapprima non fu in grado di dar voce ai suoi pensieri. Finalmente poggiò un dito sulla settima foto. — Riconosco costui — disse.

— In che modo?

— La fronte, il viso rotondo, il collo molto tozzo, le ampie spalle, le orecchie in fuori. Questo è Ivan il Terribile, come lo ricordo da Treblinka.

— E vede questo stesso uomo da qualche parte in aula oggi? — chiese Shaked, facendo vagare lo sguardo per tutto il vasto teatro come se lui stesso non avesse idea di dove potesse trovarsi il mostro.

Epstein alzò la voce mentre additava Demjanjuk. — Sì, è seduto proprio lì!

Gli spettatori applaudirono. L’avvocato israeliano di Demjanjuk, Yoram Sheftel, spalancò le braccia come per implorare la corte. Il giudice Levin aggrottò la fronte, come se fosse riluttante a interrompere una bella rappresentazione, ma infine richiamò il pubblico all’ordine.

Un altro testimone era adesso sul banco: Eliahu Rosenberg, un uomo di bassa statura, tarchiato, con capelli grigi e cespugliose sopracciglia scure.

— Le chiedo di guardare l’accusato — disse il pubblico ministero Mickey Shaked. — Lo guardi attentamente.

Rosenberg guardò i tre giudici. — Chiederete all’accusato di levarsi gli occhiali?

Demjanjuk immediatamente si tolse le lenti, ma quando Mark O’Connor, il suo avvocato americano, si alzò per obiettare, Demjanjuk se le rimise di nuovo.

— Signor O’Connor — disse il giudice Levin, accigliandosi — qual è la sua posizione?

O’Connor guardò Demjanjuk, poi Rosenberg, poi di nuovo il giudice Levin. Infine, scrollò le spalle. — Il mio cliente non ha nulla da nascondere.

Demjanjuk si alzò e si tolse gli occhiali di nuovo. Poi si tese in avanti e parlò a O’Connor. — Sta bene — disse Demjanjuk. — Fatelo venire più vicino. — Indicò ai suoi piedi. — Fatelo venire proprio qui.

Dapprima O’Connor zittì Demjanjuk, ma poi sembrò pensare che forse aveva avuto una buona idea. — Signor Rosenberg — disse — perché non viene a dare un’occhiata più ravvicinata?

Rosenberg lasciò il banco dei testimoni e, senza staccare gli occhi da Demjanjuk, ridusse le distanze. Gli spettatori si scambiarono bisbigli. — Posmotree! — gridò Rosenberg. «Guardami!»

Demjanjuk incrociò il suo sguardo e gli tese la mano. — Shalom — disse.

Rosenberg indietreggiò di scatto. — Assassino! — gridò. — Come osi offrirmi la mano? — Avi Meyer osservò la moglie di Rosenberg, Adina, che era seduta in terza fila, svenire. Sua figlia la prese tra le braccia. Rosenberg tornò precipitosamente al banco dei testimoni.

— Le è stato chiesto di dare un’occhiata più da vicino — disse il giudice Dov Levin. — Che cosa ha visto?

La voce di Rosenberg era tremante. — È Ivan. — Deglutì, cercando di riguadagnare la compostezza. — Lo dico senza esitazione e senza il minimo dubbio. È l’Ivan di Treblinka… l’Ivan delle camere a gas. Non dimenticherò mai quegli occhi… quegli occhi omicidi.

Demjanjuk urlò qualcosa. Avi Meyer non lo distinse chiaramente, e in apparenza nemmeno O’Connor, con le orecchie coperte dalla cuffia per la traduzione. Dopo essersela tolta si voltò per guardare in faccia il suo cliente.

Avi si sforzò di sentire. — Che ha detto? — chiese O’Connor.

Demjanjuk, rosso in volto, incrociò le braccia sul petto, ma non disse nulla. L’avvocato israeliano di Demjanjuk, Yoram Sheftel, si fece più vicino a O’Connor e parlò in inglese. — Ha detto a Rosenberg «Atah shakran… Sei un mentitore.»

— Sto dicendo la verità! — gridò Rosenberg. — È Ivan il Terribile!

6

Tredici mesi dopo — Minneapolis

Molly Bond si sentiva… be’, non era sicura di «come» si sentisse. Imbranata, ma eccitata; piena di paura, ma anche di speranza.

Avrebbe compiuto i ventisei anni in estate, e adesso era ben avviata a conseguire il Ph.D in psicologia comportamentale. Ma quella sera non stava studiando. Quella sera, era seduta in un bar a pochi isolati dal campus dell’Università del Minnesota, dove l’aria piena di fumo le irritava gli occhi. Aveva già bevuto un tè ghiacciato, tentando di raccogliere il coraggio. Aveva indossato un’aderente camicetta di seta rossa, senza il reggiseno. Quando abbassava gli occhi sul suo petto, poteva vedere le punte dei suoi capezzoli che premevano contro la stoffa. Si era già aperta un bottone prima di entrare, e ora se ne aprì un secondo. Indossava anche una gonna di pelle nera che non le scendeva neanche a mezza coscia, calze scure, e scarpe nere dai tacchi a spillo. I capelli biondi le ricadevano sciolti intorno alle spalle, e aveva sulle labbra un colore rosso brillante come la camicetta.

Molly alzò lo sguardo e vide un uomo entrare nel bar: un tipo niente male, sui venticinque, con occhi scuri e un sacco di capelli neri. Italiano, forse. Portava un giubbotto dell’UM, con la scritta MED SU una manica. Perfetto.

Lo vide che la squadrava. Lo stomaco di Molly era in subbuglio. Gli lanciò un’occhiata, riuscì a fare un sorrisetto poi distolse lo sguardo.

Era stato abbastanza. Quel tipo si fece avanti e prese lo sgabello accanto a lei, ben dentro la sua zona.

— Posso offrirti un drink? — chiese.

Molly annuì. — Un tè ghiacciato — disse, indicando il bicchiere vuoto. Il giovane fece un cenno al barista.

I pensieri di lui erano lascivi. Quando non pensava che lei stesse guardando, Molly poté vederlo di sfuggita mentre lui la scrutava. Accavallò le gambe sullo sgabello, facendo ballonzolare i seni.

Non passò molto tempo prima che si ritrovassero da lui. Un tipico appartamento da studente, non lontano dal campus: scatole di pizza vuote in cucina, libri di testo aperti sparsi sui mobili. Si scusò per il disordine e iniziò a ripulire il divano.

— Non ce n’è bisogno — disse Molly. C’erano solo due uscite dal soggiorno, ed entrambe erano aperte; andò verso quella che dava sulla camera da letto, e restò sulla soglia.

Lui le si avvicinò, trovando con le mani i seni attraverso la camicetta, poi sotto la camicetta, poi la aiutò a togliersela rapidamente. Molly gli slacciò la cintura, e lasciarono cadere il resto dei loro abiti avviandosi verso il letto, illuminato in parte dalla luce che proveniva dal soggiorno. Lui aprì il cassetto del comodino, tirò fuori un pacchetto da tre preservativi, e guardò Molly. — Odio queste cose — disse, sondando le acque, sperando che lei fosse d’accordo. — Eliminano la sensazione.

Molly fece scivolare le dita sul suo petto villoso, lungo il suo braccio muscoloso, e sulla sua mano. Gli prese i preservativi, e li rimise nel cassetto ancora aperto. — Di che ti preoccupi? — disse, sorridendogli.

Cinque anni dopo — Washington, D.C.

Avi Meyer era seduto nel suo appartamento, con la mascella penzoloni.

Demjanjuk era stato trovato colpevole, naturalmente, e condannato a morte. Il verdetto era stato ovvio fin dall’inizio del processo. Eppure, doveva esserci un appello: era obbligatorio per la legge israeliana. Avi non era stato inviato in Israele per il secondo processo; i suoi capi dell’osi erano fiduciosi che nulla sarebbe cambiato. Senza dubbio tutte le storie che filtravano attraverso la stampa erano solo astute mosse degli avvocati di Demjanjuk. Certamente l’intervista trasmessa nel programma della CBS 60 Minutes con Maria Dudek, una donna ossuta ora sulla settantina, con capelli bianchi sotto un fazzoletto, vestiti cenciosi, e solo pochi denti rimasti, una donna che aveva fatto la prostituta negli anni ’40 a Wolga Okralnik presso Treblinka, una donna che aveva avuto un cliente regolare che faceva funzionare le camere a gas laggiù, una donna che aveva urlato di passione per lui… certamente quella vecchia si sbagliava quando diceva che il nome del suo cliente non era stato Ivan Demjanjuk ma piuttosto Ivan «Marchenko».