Ma no. Avi Meyer stava guardando tutto il lavoro dell’osi disfatto in diretta alla CNN. Il presidente della Corte Suprema israeliana, Meir Shamgar, aveva appena annullato il verdetto di condanna di John Demjanjuk.
Demjanjuk era rimasto prigioniero in Israele per cinque anni e mezzo. Il processo d’appello era stato ritardato tre anni per un attacco cardiaco sofferto dal giudice Zvi Tal. E durante quei tre anni, l’Unione Sovietica era caduta e documenti un tempo segreti erano stati resi pubblici.
Proprio come aveva detto Maria Dudek, l’uomo addetto alla camera a gas di Treblinka era stato Ivan Marchenko, un ucraino che «aveva» una somiglianza con Demjanjuk. Ma la rassomiglianza era solo fuggevole. Demjanjuk era nato il 3 aprile 1920, mentre Marchenko era nato il 2 febbraio 1911. Demjanjuk aveva occhi blu mentre quelli di Marchenko erano marroni.
Marchenko era stato sposato prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Il genero di Demjanjuk, Ed Nishnic, era andato in Russia e aveva rintracciato la famiglia di Marchenko a Seryovka, un villaggio nel distretto di Dnepropetrovsk. I familiari non avevano più visto Marchenko dal suo arruolamento nell’Armata Rossa nel luglio 1941. La moglie abbandonata da Marchenko era morta solo un mese prima della visita di Nishnic, e sua figlia era scoppiata a piangere apprendendo gli orrori che il padre scomparso aveva perpetrato a Treblinka. «È un bene» aveva detto fra i singhiozzi «che mamma sia morta non sapendo.»
Quando gli erano state riferite queste parole, il cuore di Avi aveva sobbalzato. Era lo stesso sentimento che aveva provato lui alla scoperta che Ivan aveva costretto suo padre a stuprare una ragazzina.
Gli archivi del KGB contenevano una dichiarazione giurata di Nikolai Shelaiev, l’altro operatore della camera a gas di Treblinka, quello che era stato, letteralmente, il minore dei due mali. Shelaiev era stato catturato dai sovietici nel 1950, e condannato e giustiziato come criminale di guerra nel 1952. La sua deposizione conteneva l’ultimo avvistamento da parte di chiunque, in qualsiasi luogo, di Ivan Marchenko, mentre usciva da un postribolo a Fiume, nel marzo 1945. Aveva detto a Nikolai che non aveva nessuna intenzione di tornare dalla sua famiglia.
Ancor prima che Maria Dudek parlasse con Mike Wallace, ancor prima che Demjanjuk fosse privato della cittadinanza americana, Avi aveva saputo che il cognome usato da Ivan il Terribile nella sua permanenza a Treblinka poteva essere stato proprio Marchenko. Ma ciò non era di nessuna rilevanza, si era accertato Avi: il nome Marchenko era intimamente legato a Demjanjuk, comunque. In un modulo che Demjanjuk aveva compilato nel 1948 per richiedere lo status di rifugiato, l’aveva dato come nome da ragazza di sua madre.
Ma precedentemente al primo processo, era venuta alla luce la licenza nuziale dei genitori di Demjanjuk, datata 24 gennaio 1910. Dimostrava che il nome da ragazza di sua madre non era affatto Marchenko; invece, era Tabachuk. Quando Avi aveva interrogato Demjanjuk sul perché avesse messo «Marchenko» sul modulo, Demjanjuk aveva affermato di aver dimenticato il vero cognome da nubile di sua madre e, considerando la questione di nessuna importanza, aveva semplicemente inserito un comune cognome ucraino per completare i dati.
«Giusto» aveva pensato Avi. «Certo.»
Ma ora sembrava che fosse la verità. John Demjanjuk non era Ivan… e Avi Meyer e il resto dell’osi erano stati a un passo dal trovarsi responsabili dell’esecuzione di un uomo innocente.
Avi aveva bisogno di rilassarsi, di distogliere la mente da tutto ciò. Attraversò il soggiorno dirigendosi all’armadietto in cui teneva le videocassette. Mezzogiorno e mezzo di fuoco lo rimetteva sempre di buon umore, e anche Dolci vizi al foro, e…
Senza pensarci, tirò fuori una custodia con due videocassette.
Vincitori e vinti. Tutt’altro che divertente ma, con le sue tre ore, gli avrebbe tenuto la mente occupata fino al momento di andare a letto.
Avi mise il primo nastro nel suo videoregistratore e, mentre scorrevano i titoli con la loro commovente ouverture, fece scoppiare un po’ di popcorn nel microonde.
Il film cominciò. Bevve tre birre.
La situazione era stata capovolta a Norimberga: Burt Lancaster interpretava Ernst Janning, uno dei quattro giudici tedeschi sotto processo. Sembrava un piccolo ruolo di non protagonista, finché Janning non prendeva la parola nell’ultima mezz’ora del film…
Il processo contro Janning era imperniato sulla questione di Feldenstein, un ebreo di cui aveva decretato la condanna a morte per pretestuose accuse di atti osceni. Janning domandava il diritto a parlare, contro le obiezioni del proprio avvocato. Quando saliva sul banco dei testimoni, Avi sentì stringersi lo stomaco. Janning parlava delle menzogne che Hitler aveva propinato alla società tedesca: «Ci sono demoni fra noi: comunisti, liberali, ebrei, zingari. Quando questi demoni verranno distrutti, le vostre sofferenze saranno distrutte». Janning scuoteva lievemente la testa. «Era la solita, vecchia storia dell’agnello sacrificale.»
Lancaster parlava con forza, mettendo in quel monologo ogni briciola della sua abilità. «Non è facile dire la verità» diceva «ma se dev’esserci qualche salvezza per la Germania, noi che conosciamo la nostra colpa dobbiamo ammetterla, qualunque siano il dolore e l’umiliazione.» Una pausa. «Ero giunto al mio verdetto sul caso Feldenstein prima ancora di metter piede in tribunale. L’avrei trovato colpevole qualunque fossero le prove. Non fu affatto un processo. Fu un sacrificio rituale di cui l’ebreo Feldenstein fu la vittima inerme.»
Avi fermò il nastro, avendo deciso di non guardare il resto anche se era quasi finito. Andò nel bagno a lavarsi i denti.
Ma accidentalmente aveva premuto PAUSE invece di STOP. Dopo cinque minuti, il nastro si sganciò e la TV riprese a blaterare: ancora la CNN. Tornò in soggiorno, cercando a tentoni il telecomando e decise di continuare fino al termine. Qualcosa in lui aveva bisogno di vedere il finale di nuovo.
Dopo il processo, dopo che Janning e gli altri tre giudici nazisti erano stati condannati al carcere a vita, Spencer Tracy, nel ruolo del giudice americano, Hayvvood, esaudiva la richiesta di Janning di visitarlo in prigione. Janning aveva scritto le memorie dei casi di cui era ancora orgoglioso, quelli giusti, quelli per cui voleva essere ricordato. Porgeva il fascicolo a Haywood perché lo custodisse al sicuro.
E poi, con nella voce appena un lievissimo tono di supplica, Lancaster, di nuovo nella piena padronanza della sua recitazione, diceva: «Giudice Haywood… la ragione per cui le ho chiesto di venire. Quelle persone, quei milioni di persone… non ho mai saputo che si sarebbe giunti a tanto. Deve credermi. Deve credermi.»
C’era un momento di silenzio, e poi Spencer Tracy diceva, tristemente, a voce bassa: «Herr Janning, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente».
Avi Meyer spense la TV e restò seduto nell’oscurità, abbandonato sul divano.
«Demoni fra noi.» Parole di Hitler, secondo Janning. Nel suo armadietto di legno, accanto al posto vuoto lasciato da Vincitori e vinti c’era Gli assassini sono fra noi: la storia di Simon Wiesenthal.
Echi. Echi scomodi, ma sempre echi.
«Quando questi demoni verranno distrutti, le vostre sofferenze saranno distrutte.»
Avi aveva voluto crederlo. Distruggere le sofferenze, lasciare che i fantasmi riposino. E Demjanjuk… Demjanjuk…
«Era la solita, vecchia storia dell’agnello sacrificale.»