No. No, era stato un caso giusto, un caso corretto, un…
«Ero giunto al mio verdetto prima ancora di metter piede in tribunale. L’avrei trovato colpevole qualunque fossero le prove. Non fu affatto un processo. Fu un sacrificio rituale.»
Sì, nel profondo, Avi Meyer aveva saputo. Senza dubbio anche i giudici israeliani, Dov Levin, Zvi Tal, e Dalia Dorner, avevano saputo.
«Herr Janning, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»
«Mar Levin, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»
«Mar Tal, il fatto è che…»
«Giveret Dorner, il fatto è che…»
Avi sentì le sue budella agitarsi.
«Agente Meyer, il fatto è che la prima volta che ha condannato un uomo a morte sapeva che era innocente.»
Avi si alzò e rimase a guardare fuori dalla finestra, verso la Strada D. La sua vista era appannata. Aveva voluto giustizia. Aveva voluto che qualcuno pagasse. Poggiò la sua mano sul freddo vetro. Cosa aveva fatto? Cosa aveva fatto?
Ora i procuratori israeliani stavano dicendo… be’, se Demjanjuk non era Ivan il Terribile, forse era stato una guardia a Sobibor o qualche altra installazione nazista.
Avi pensò a Tom Robinson, con la sua storpia mano nera. Un inutile nero… se non era colpevole di aver stuprato Mayella Ewell, era probabilmente colpevole di qualcos’altro.
La CNN aveva mostrato il teatro trasformato in aula di tribunale, lo stesso teatro in cui Avi si era seduto cinque anni prima a guardare lo svolgersi del caso. Demjanjuk, ancora adesso non libero, era stato portato via nella cella di prigione dove aveva trascorso le ultime duemila notti.
Avi uscì dal soggiorno, camminando nelle tenebre.
«Signorina Jean Louise, si alzi in piedi. Sta passando suo padre.»
Ma nemmeno i fantasmi si alzarono a onorare il passaggio di Avi Meyer.
7
Pierre Tardivel divenne un uomo con un unico scopo, tutto dedito ai suoi studi. Decise di specializzarsi in genetica, il campo che, dopotutto, gli aveva rivoluzionato la vita. Si distinse subito, e iniziò una brillante carriera di ricercatore in Canada.
Nel marzo 1993, lesse del progresso fatto: il gene della corea di Huntington era stato scoperto, rendendo possibile un test del DNA semplice e poco costoso per determinare se uno ce l’avesse, e potesse perciò finire per sviluppare la malattia. Eppure, Pierre non fece il test. Ne aveva quasi paura adesso. Se non aveva la malattia, sarebbe ridiventato indolente? Avrebbe ricominciato a sprecare la vita di nuovo? Lasciar passare i decenni invano?
All’età di trentadue anni, Pierre fu nominato ricercatore post-dottorato al Lawrence Berkeley Laboratory, situato in cima a una collina sopra l’Università della California, Berkeley. Fu assegnato al Progetto Genoma Umano, il tentativo internazionale di mappare e sequenziare tutto il DNA che forma un essere umano.
Il campus di Berkeley era esattamente quello che un campus universitario dovrebbe essere: assolato e verde e pieno di spazi aperti, proprio il tipo di posto dove poter immaginare che fosse nato il movimento del libero amore.
A essere un po’ meno meraviglioso fu il nuovo capo di Pierre, l’intrattabile Burian Klimus, che aveva vinto un Premio Nobel per il suo innovativo metodo per sequenziare il DNA, la cosiddetta Tecnica Klimus, ora largamente usata in laboratori di tutto il mondo.
Se uno scienziato pazzo dei fumetti avesse avuto un fisico da lottatore, sarebbe somigliato a Klimus, un uomo massiccio e completamente calvo di ottantun anni, con un collo di mezzo metro di circonferenza. I suoi occhi erano marroni, e la faccia, per quanto rugosa, mostrava solo i segni della vecchiaia; non c’erano grinze causate dal buonumore, in effetti, Pierre non vide alcun segno che Klimus avesse «mai» riso.
«Non preoccuparti del dottor Klimus» aveva detto a Pierre Joan Dawson, la segretaria generale dell’Human Genome Center, il primo giorno del suo nuovo lavoro. Per quanto il titolo di Klimus fosse ufficialmente professore di Biochimica — circa un quarto dei mille scienziati e ingegneri del LBL avevano incarichi di docenza nei campus dell’Università Berkeley o a San Francisco — a Pierre era stato detto che il vecchio preferiva essere chiamato «dottore», non «professore». Era un pensatore, non un semplice insegnante.
Pierre aveva immediatamente trovato simpatica Joan, pur sentendosi un po’ a disagio a chiamare per nome una donna di età doppia della sua. Era dolce e gentile: come una madre occhialuta e dai capelli grigi per tutti i distratti professori e anche per gli studenti che facevano lavoretti secondari per il Progetto Genoma Umano. Joan spesso portava in ufficio biscotti o pasticcini fatti in casa e lasciava che chiunque si servisse della sua onnipresente caffettiera.
E così, poco dopo aver cominciato, Pierre si trovò seduto di fronte alla scrivania di Joan, mangiucchiando una gigantesca focaccia al burro ripiena di marmellata mentre attendeva un appuntamento col dottor Klimus. Joan scrutava un foglio di carta, gli occhi socchiusi. — È deliziosa — disse Pierre. Indicò il piatto con sopra ancora cinque grosse paste. — Non so come tu possa resistere. Dev’essere una vera tentazione mangiarne in continuazione.
Joan alzò lo sguardo e sorrise. — Oh, io non ne mangio mai. Sono diabetica, vedi. Lo sono da circa vent’anni. Ma amo fare infornate, e alla gente sembra che piacciano sempre i dolci che porto. Mi dà un sacco di piacere vedere che tutti li apprezzano.
Pierre annuì, impressionato da quel sacrificio. Aveva già visto che Joan portava un braccialetto di Allerta Medico; ora capiva il perché. Joan tornò a fissare la pagina sulla sua scrivania, ma poi sospirò e la porse a Pierre. — Vorresti essere gentile, e leggere l’ultima riga per me? Non riesco a distinguerla.
Pierre prese il foglio. — Dice: «Tutti i rapporti Q-quattro dello staff sono attesi nell’ufficio del direttore non più tardi del 15 settembre».
— Grazie. — Lei sospirò. — Stanno cominciando a venirmi le cataratte, temo. Credo che dovrò farmi operare, qualche giorno. — Pierre annuì, comprensivo, la cataratta era comune fra gli anziani diabetici.
Guardò l’orologio; il suo appuntamento sarebbe dovuto iniziare da quattro minuti. Dannazione, odiava sprecare il tempo.
Sebbene Molly si fosse trastullata con l’idea di ottenere un impiego alla Duke University, che era famosa per le sue ricerche sui presunti fenomeni paranormali, accettò invece un posto di professore associato all’Università della California, Berkeley. Aveva scelto l’’UCB perché era abbastanza lontana da sua madre e Paul e sua sorella Jessica (che adesso era passata attraverso un breve matrimonio e successivo divorzio) da rendere improbabile che decidessero di farle visita.
Una nuova vita, una nuova città, ma, dannazione a tutto, proseguiva a fare gli stessi stupidi sbagli, continuava a pensare che, in qualche modo, stavolta le cose sarebbero andate diversamente, che sarebbe riuscita a sopportare di passare una serata seduta di fronte a un tipo che faceva pensieri sconci su di lei.
Rudy non era stato il peggiore dei suoi precedenti appuntamenti sporadici, finché non aveva preso un paio di drink, e allora i suoi pensieri superficiali erano degenerati in nient’altro che un incessante flusso di osceno erotismo. «Cazzo, quanto mi piacerebbe fotterla. Spalanca le gambe, baby, spalanca le gambe…»
Lei aveva cercato di cambiare argomento di conversazione, ma non importava di cosa stessero parlando, i pensieri alla superficie della mente di Rudy sembravano i graffiti sulle pareti dei cessi pubblici. Molly osservò che la squadra di baseball di Oakland se la stava cavando bene in quella stagione. «Ho una mazza io, baby,..» Chiese a Rudy del suo lavoro. «Lavorati ‘questo’, baby! Succhiatelo tutto…» Menzionò che sembrava star per piovere. «Ci penso io a innaffiarti, baby, innaffiarti di sborra…»