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— Aspetti un minuto… questo è pazzesco. Se non faccio il test, avete il 50% di probabilità che finirò per presentare un sacco di richieste di danno dovute alla mia corea di Huntington, e così mi respingete a causa delle mie vicende familiari. Ma se faccio il test, e anche se c’è la sicurezza del cento per cento che «prenderò» la malattia e perciò inoltrerò richieste di danni urgenti», mi «assicurerete»?

— È giusto, o almeno lo sarà, dopo il primo gennaio, a causa della nuova legge.

— Ma io non intendo fare il test.

— Davvero? Avrei pensato che desiderasse sapere.

— No. No, non è così. Pochissimi di quelli a rischio hanno fatto il test. La maggior parte di noi non vogliono saperlo per certo.

Tiffany si strinse nelle spalle. — Be’, se vuole essere assicurato, è la sua sola possibilità. Guardi, perché non riempie i moduli oggi, ma li data gennaio… be’, gennaio il due: il primo giorno lavorativo del nuovo anno. La chiamerò allora, e lei mi farà sapere cosa intende fare. Se a quel punto avrà già fatto il test, o sarà pronto a farlo, io sottoporrò la sua adesione alla polizza; se no, mi limiterò a strapparla.

— Desidererei vedere qualche altro piano prima di prendere una decisione — disse.

— Come no. — Mostrò a Pierre una varietà di polizze: i prevedibili Piano Argento e Bronzo, con benefici progressivamente minori.

— Non rimpiangerà questa scelta — disse Tiffany. — Non sta solo stipulando un’assicurazione… si sta assicurando la pace dello spirito. — Prese un modulo dalla sua valigetta e lo porse a Pierre. — Dovrebbe solo riempire questo, e non si scordi di datarlo due gennaio. — Aprì il lato sinistro della sua giacca. C’era un taschino all’interno, con infilate una serie di penne a sfera tutte identiche. Ne estrasse una, richiuse la giacca, e offrì la penna a Pierre.

Lui premette il pulsante della penna col pollice, si accertò che la punta della penna fosse uscita e compilò il modulo. Quando ebbe finito, le consegnò il modulo e distrattamente infilò la penna nel propri taschino del camice.

Tiffany puntò il dito. — La mia penna…? — disse.

Pierre sorrise scioccamente e gliela porse. — Mi scusi.

— Allora, la chiamerò all’inizio dell’anno — disse lei. — Ma stia attento fino ad allora… non vorremmo che le succedesse nulla prima che si sia assicurato.

— Ancora non so se farò il test — disse lui. Lei annuì. — Sta a lei.

10

Pierre aveva cercato a lungo e intensamente un campo in cui specializzarsi. Il suo primo istinto era stato di far ricerche direttamente sulla corea di Huntington, ma da quando era stato scoperto il gene responsabile, molti scienziati vi si erano già concentrati. Naturalmente, Pierre sperava che trovassero una cura, e abbastanza presto da aiutarlo, com’è ovvio, se fosse risultato che lui stesso aveva la malattia. Ma Pierre sapeva anche che la scienza aveva bisogno di obiettività: non poteva permettersi di buttare nel cesso gli anni che potevano ancora rimanergli seguendo esili tracce che probabilmente non avrebbero portato a nulla, tracce che qualcuno non malato avrebbe capito quando abbandonare, ma cui lui, per disperazione, avrebbe potuto devolvere fin troppo tempo.

Pierre decise invece di concentrarsi su un’area che la maggior parte degli altri genetisti stava complessivamente ignorando, nella speranza che, in quel campo, sarebbe stato più probabile raggiungere risultati che potessero realmente procurargli un Premio Nobel. Concentrò le sue ricerche sugli introni: quel novanta per cento del genoma umano, costituito da tratti di gene non codificanti la sintesi proteica.

Cosa esattamente facesse tutto quel DNA non era affatto sicuro. Alcune parti sembravano sequenze estranee introdotte da virus che avevano invaso il genoma in passato; altre erano balbettanti ripetizioni senza fine: ironicamente, di struttura simile al gene molto insolito che causava la corea di Huntington; altre ancora erano rimasugli disattivati del nostro passato evolutivo. La maggioranza dei genetisti ritenevano che il Progetto Genoma Umano sarebbe stato completato molto più in fretta se quei nove decimi fossero stati semplicemente ignorati. Ma in Pierre albergava il sospetto che ci fosse qualcosa di significativo codificato in qualche modo ancora indecifrabile fra quel groviglio di nucleotidi.

La sua nuova assistente, una studentessa dell’UCB di nome Shari Cohen, non era d’accordo. Shari era minuta e sempre vestita in maniera immacolata, una bambola di porcellana con la pelle pallida e lucidi capelli neri, e un gigantesco diamante sull’anello di fidanzamento. — Hai avuto fortuna in biblioteca? — chiese Pierre.

Lei scosse il capo. — No, e devo dire che questa sembra proprio un’idea balzana, Pierre. — Parlava con un accento di Brooklyn. — Dopotutto, il codice genetico è semplice e facilmente comprensibile.

E così, in effetti, sembrava. Quattro basi componevano i pioli della scala del DNA: adenina, citosina, guanina e timina. Ognuna di queste era una lettera dell’alfabeto genetico. Infatti, di solito ci si riferisce a esse semplicemente con le loro iniziali: A, C, G, e T. Queste si combinavano insieme a formare le parole di tre lettere del linguaggio genetico.

— Be’ — disse Pierre — considera questo: l’alfabeto genetico ha quattro lettere, e tutte le sue parole sono lunghe tre lettere. Così, quante sono le parole possibili nel linguaggio genetico?

— Quattro alla terza potenza — disse Shari — che fa sessantaquattro.

— Giusto — disse Pierre. — Ora, cosa fanno in realtà queste sessantaquattro parole?

— Specificano gli amminoacidi da usare nella sintesi proteica — replicò Shari. — La parola AAA specifica lisina, AAC asparagina, e così via.

Pierre annuì. — E quanti amminoacidi differenti sono usati per fare le proteine?

— Venti.

— Ma hai detto che ci sono sessantaquattro parole nel vocabolario genetico.

— Be’, tre delle parole sono segni di punteggiatura.

— Ma anche tenendo conto di queste, rimangono ancora sessantuno parole per esprimere venti concetti. — Attraversò la stanza e indicò un poster attaccato al muro.

IL CODICE GENETICO

Shari fece qualche passo per ritrovarsi accanto a lui. — Be’, proprio come in inglese, il linguaggio genetico ha dei sinonimi. — Indicò il primo riquadro del poster. — GCA, GCC, GCG e GCT specificano tutte lo stesso amminoacido, alanina.

— Giusto. Ma perché esistono questi sinonimi? Perché non usare solo venti parole, una per ogni amminoacido?

Shari fece spallucce. — È probabilmente un meccanismo di sicurezza, per ridurre le probabilità che errori di trascrizione ingarbuglino il messaggio.

Pierre dissentì. — Ma certi amminoacidi possono essere specificati da molte fino a sei parole differenti, e altri da una sola. Se i sinonimi proteggessero dagli errori di trascrizione, certamente ne occorrerebbero diversi per ogni parola. In effetti, se si progettasse un codice di sessantaquattro parole semplicemente per ridondanza, si potrebbero usare tre parole a testa per ciascuno dei venti amminoacidi, e usare come segni di punteggiatura le quattro parole rimanenti.

Shari fece di nuovo spallucce. — Immagino. Ma il codice del DNA non è stato progettato; si è evoluto.