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Pierre entrò sotto la doccia, tergendosi il sangue dalle braccia e dal petto. L’acqua che scorreva giù per lo scarico era tinta di rosso. Pierre si strofinò meticolosamente fino a rimuovere la più piccola traccia di sangue sulla pelle. Dopo essersi asciugato, strisciò nel letto accanto a Molly, e si strinsero l’uno all’altra.

— Perché un neonazista dovrebbe darmi la caccia? — disse Pierre, nell’oscurità. Sbuffò rumorosamente. — Diavolo, perché qualcuno dovrebbe darsi pensiero di cercare di uccidermi? Dopotutto… — Le parole si spensero. La frase in inglese si era già formata nella sua mente, ma decise di non darle voce.

Ma Molly seppe quel che era stato sul punto di dire, e lo attirò ancor più vicino a sé, tenendolo stretto.

«Dopotutto» aveva pensato Pierre Tardivel «è probabile che morirò presto comunque.»

PARTE PRIMA

«Viviamo eroicamente, lottando con tutte le forze; meglio correre il rischio di morire di consunzione che di ruggine.»

Theodore Roosevelt, (vincitore nel 1906 del Premio Nobel per la Pace)

1

agosto 1943

Le urla erano come lo scoppiare dei popcorn: dapprima se ne udivano solo una o due, poi se ne sovrapponevano centinaia, poi, finalmente, diminuivano, e al termine non ne restava nessuna e si sapeva che era tutto finito.

Jubas Meyer cercava di non pensarci. Anche la maggior parte dei bastardi che se ne occupavano cercavano di non pensarci. A soli quaranta metri di distanza, una banda di musicisti ebrei suonava con le armi puntate contro. Le loro canzoni avevano lo scopo di coprire le grida dei morenti, poiché il rombo del motore diesel nella Maschinehaus era insufficiente a dissimularle del tutto.

Infine, mentre Jubas e gli altri stavano pronti, i due operatori ucraini aprirono le massicce porte. Del fumo azzurro si levò dall’apertura.

Come capitava di frequente, i corpi nudi erano ancora in piedi. La gente era stata stipata così strettamente — fino a cinquecento persone nella minuscola camera — che materialmente non c’era spazio per cadere. Ma ora che le porte erano aperte, quelli più vicini all’uscita piombarono fuori, riversandosi nel caldo sole estivo, con le facce gonfie e coperte di macchie per l’avvelenamento da monossido di carbonio. Il fetore di sudore umano, di urina e vomito riempì l’aria.

Jubas e il suo compagno, Shlomo Malamud, si fecero avanti, portando la loro barella di legno. Con essa, potevano rimuovere un adulto o due bambini a ogni carico; non avevano la forza di portarne di più. Jubas poteva contarsi facilmente le costole attraverso la pelle sottile, e il cuoio capelluto gli prudeva senza posa per i pidocchi.

Jubas e Shlomo cominciarono con una donna di circa quarant’anni. Il suo seno sinistro aveva un lungo squarcio. Trasportarono il corpo al posto di operazione. L’uomo laggiù, un tipo emaciato sopra i trent’anni di nome Yehiel Reichman, le inclinò la testa all’indietro e le aprì la bocca. Individuò un’otturazione d’oro, la raggiunse con delle pinze incrostate di sangue, ed estrasse il dente.

Shlomo e Jubas portarono il corpo al pozzo e lo scaricarono in cima agli altri cadaveri, tentando di ignorare il ronzio delle mosche e il lezzo della carne malata e delle scariche intestinali post-mortem. Tornarono alla camera, e…

«No… No! Dio, no. Non Rachel.»

Ma era lei. La sorella di Jubas, che giaceva lì nuda tra i morti, con gli occhi verdi alzati verso di lui, inerti come smeraldi.

Lui aveva pregato che fosse andata via, pregato che fosse al sicuro, pregato…

Jubas indietreggiò barcollando, inciampò, cadde al suolo, con le lacrime che sgorgavano dagli occhi, e le gocce che scavavano canali nel lerciume che gli copriva la faccia.

Shlomo si mosse per aiutare il suo amico. — Presto — bisbigliò. — Presto, prima che vengano…

Ma Jubas stava piangendo ora, incapace di controllarsi.

— Fa impressione a tutti — disse Shlomo per tentare di calmarlo.

Jubas scosse la testa. Shlomo non capì. Inghiottì aria, costringendosi infine a emettere le parole. — È Rachel — disse Jubas fra i singhiozzi convulsi, indicando il cadavere. Adesso le mosche le stavano strisciando sulla faccia.

Shlomo poggiò una mano sulla spalla di Jubas. Shlomo era stato separato da suo fratello Saul, e l’unica cosa che l’aveva tenuto in vita tutto quel tempo era il pensiero che in qualche modo Saul potesse essere in salvo.

— Alzatevi! — gridò una voce familiare. Un ucraino alto e corpulento, che portava stivaloni, si avvicinò. Imbracciava un fucile con la baionetta innestata… la stessa baionetta che Jubas l’aveva spesso visto passare su una cote fino ad affilarla come un bisturi.

Jubas alzò lo sguardo. Anche fra le lacrime, riuscì a distinguere i lineamenti dell’uomo: una faccia tonda sulla trentina, una testa semicalva, orecchie prominenti, labbra sottili.

Shlomo andò verso l’ucraino, rischiando tutto. Poté odorare il liquore da poco prezzo nel fiato dell’uomo. — Un momento, Ivan… per pietà. È la sorella di Jubas.

L’ampia bocca di Ivan si schiuse in un terribile sogghigno. Si chinò e usò la baionetta per tagliar via il capezzolo destro di Rachel. Poi, con un colpetto del dito indice, lo staccò dalla lama mandandolo per aria. Roteò più volte prima di atterrare in grembo a Jubas Meyer, dal lato insanguinato.

— Qualcosa per ricordarla — disse Ivan.

Era un mostro.

Un demonio.

Il male incarnato.

Il suo nome di battesimo era Ivan. Il suo cognome era ignoto, e così gli ebrei l’avevano soprannominato Ivan il Terribile. Era arrivato al campo un anno prima, nel luglio 1942. Alcuni che dicevano che era stato un uomo istruito prima della guerra; usava parole più ricercate rispetto alle altre guardie. Certi sostenevano che doveva essere stato un dottore, dato che affettava carne umana con tanta precisione. Ma qualunque cosa fosse nella vita civile, l’aveva messa da parte.

Jubas Meyer aveva fatto i calcoli, computando quanti cadaveri lui e Shlomo avessero rimosso dalla camera ogni giorno, quante altre coppie di ebrei venivano costrette a fare la stessa cosa, quanti treni carichi erano arrivati fino ad allora.

I risultati erano da lasciar esterrefatti. Lì, in quel minuscolo campo, fra dieci e dodicimila persone venivano giustiziate ogni giorno; in certi giorni, il conteggio raggiungeva addirittura le quindicimila. Fino a quel momento, più di mezzo milione di persone erano state sterminate. E c’erano voci relative ad altri campi: uno a Belzac, un altro a Sobibor, forse altri ancora.

Non potevano esserci dubbi: i nazisti intendevano uccidere ogni singolo ebreo, spazzarli via tutti dalla faccia della Terra.

E lì, a Treblinka, ottanta chilometri a nordest di Varsavia, Ivan il Terribile era il principale agente di tanta distruzione. Vero, aveva un partner di nome Nikolai che lo aiutava a far funzionare le camere, ma era Ivan a essere sadico da non crederci, stuprando le donne prima di gassarle, squarciando le loro carni, specialmente seni, mentre marciavano nude dentro le camere, costringendo gli ebrei a copulare coi cadaveri mentre lanciava una fredda risata gutturale e li picchiava con un tubo di piombo.

Ivan si crogiolava in tutto ciò, e la sua naturale indole malvagia era ulteriormente peggiorata dalle frequenti sbornie. Come ucraino, probabilmente era stato lui stesso un prigioniero di guerra, ma si era offerto volontario per il servizio come Wachmann, e aveva dimostrato una notevole competenza tecnica, che l’aveva condotto a esser nominato responsabile delle camere a gas. Adesso era così fidato che i tedeschi spesso gli permettevano di lasciare il campo. Una volta Jubas aveva sentito Ivan vantarsi con Nikolai della puttana che frequentava nella vicina città di Wolga Okralnik. — Se credi che gli ebrei urlino forte — aveva detto Ivan — dovresti sentire la mia Maria.