Accadde un miracolo.
Ivan e Nikolai spinsero indietro le porte della camera, e… Dio, era incredibile!
Una ragazzina bionda, forse dodicenne, appena pubescente, uscì barcollante dalla camera, ancora viva.
Dietro di lei, i cadaveri cominciarono a cadere come tessere del domino.
Ma lei era viva. Uomini e donne ebrei erano stati stipati così strettamente, questa volta, che i loro stessi corpi avevano formato una sacca d’aria per lei, separandola dalla circolazione del monossido di carbonio.
La ragazzina, con gli occhi sbarrati dal terrore, stava sotto il caldo sole, ansimando in cerca d’ossigeno. E quando infine ebbe il fiato per farlo, strillò: — Ma-me! Ma-me!
Ma sua madre era tra i morti.
Jubas Meyer e Shlomo Malamud si accinsero a rimuovere i cadaveri, agitando le braccia per scacciare le mosche, trattenendo il respiro per evitare la puzza. Ivan camminò spavaldo verso la ragazzina, con una frusta in mano. Jubas gli lanciò uno sguardo di rimprovero. L’ucraino dovette vederlo. Dimenticò la bambina per un momento e andò verso Jubas, sferzandolo ripetutamente. Jubas si morse la lingua finché non sentì il gusto salato del sangue; sapeva che le grida avrebbero solo prolungato la tortura.
Quando Ivan fu sazio, si fece indietro, e guardò Jubas piegato in due dal dolore. — Davay yebatsa! — gridò.
Anche la ragazzina conosceva quelle parole oscene. Cominciò a indietreggiare, ma Ivan si mosse verso di lei, afferrandole rudemente la spalla nuda e spingendola al suolo.
— Davay yebatsa! — gridò Ivan a Jubas. Trascinò la ragazzina per terra verso dove aveva lasciato il fucile, appoggiato al muro della Maschinehaus. Puntò l’arma contro Jubas. — Davay yebatsa!
Jubas chiuse gli occhi.
Erano notizie orribili, notizie devastanti.
Il ritmo delle esecuzioni stava diminuendo.
Non significava che i tedeschi stavano cambiando idea.
Non significava che stavano abbandonando le loro intenzioni pazzesche.
Significava che erano ormai a corto di ebrei da uccidere.
Presto il campo non sarebbe stato più di nessuna utilità. Quando avevano cominciato, i tedeschi avevano ordinato di seppellire i morti. Ma di recente avevano usato macchine per movimento terra allo scopo di esumare i corpi e cremarli. Adesso ceneri umane turbinavano costantemente nell’aria; l’acre odore della carne bruciata pungeva le narici. I nazisti non volevano lasciare prove di quel che era accaduto lì.
E non volevano neanche testimoni. Presto agli stessi becchini sarebbe stato ordinato di entrare nelle camere a gas.
— Dobbiamo fuggire — disse Jubas Meyer. — Dobbiamo andarcene di qui.
Shlomo guardò il suo amico. — Ci uccideranno se tentiamo.
— Ci uccideranno comunque.
La rivolta fu pianificata in sussurri: ogni uomo passava parola al prossimo. Lunedì 2 agosto 1943 sarebbe stato il giorno. Non tutti sarebbero riusciti a fuggire, lo sapevano. Ma alcuni sì… di sicuro «alcuni» sì. Avrebbero portato al mondo notizie di quel che era accaduto laggiù.
Il sole ardeva furiosamente, come se Dio stesso aiutasse i nazisti a incenerire i corpi. Ma naturalmente Dio non avrebbe fatto una cosa simile: il caldo si tramutò in un vantaggio, perché il vicecomandante del campo concesse a un gruppo di guardie ucraine una nuotata rinfrescante nel fiume Bug.
Gli ebrei del campo inferiore — la parte dove i prigionieri venivano scaricati e preparati — avevano raccolto alcune armi di fortuna. Uno aveva riempito grosse latte di benzina. Un altro aveva rubato delle pinze tagliafili. Un terzo era riuscito a nascondere un’ascia fra la spazzatura che gli avevano ordinato di portar via. Erano finite nelle loro mani anche alcune pistole.
Qualcuno, molto tempo prima, aveva nascosto oro o denaro in buchi negli alberi, o li aveva seppelliti in luoghi segreti. Come erano stati esumati i corpi, così ora lo furono questi tesori.
Tutto era pronto a cominciare alle 16.30 del pomeriggio. La tensione era alta; avevano tutti i nervi a fior di pelle. E poi, appena prima delle 16…
— Ragazzo! — sbraitò Kuttner, un grassone delle SS.
Il bambino, forse undicenne, restò di colpo paralizzato sul suo cammino. Stava tremando dalla testa ai piedi. L’SS si fece più vicino, con un frustino per cavalli in mano. — Ragazzo! — disse ancora. — Che cos’hai nelle tasche?
Jubas Meyer e Shlomo Malamud erano a cinque metri di distanza, e portavano un cadavere esumato al luogo della cremazione. Si fermarono per osservare gli sviluppi della scena. Le tasche del lurido e cencioso camice del bambino erano lievemente rigonfie.
Il ragazzo non disse niente. Aveva gli occhi spalancati e le labbra ritratte dalla paura, che rivelavano i denti marci. Nonostante il caldo asfissiante, stava tremando come se fosse sotto zero. La guardia lo raggiunse e gli sbatté il frustino sulla coscia. Si udì l’inconfondibile tintinnio delle monete. Il tedesco socchiuse gli occhi. — Svuotati le tasche, ebreo.
Il ragazzo si voltò e si trovò l’uomo di fronte. Stava battendo i denti. Cercò di mettersi la mano in tasca, ma la mano gli tremava tanto che non riuscì a infilarla nell’imboccatura. Kuttner colpì la spalla del ragazzo col frustino: il suono fece levare in volo gli uccelli allarmati, e le loro strida coprirono il grido del ragazzo. Allora Kuttner infilò la propria mano grassa nella tasca e tirò fuori alcune monete tedesche. La infilò una seconda volta. La tasca era apparentemente vuota adesso, ma Jubas poté vedere il tedesco carezzare i genitali del ragazzo attraverso il tessuto. — Dove hai preso i soldi?
Il ragazzo scosse il capo, ma indicò il campo superiore, oltre la copertura degli alberi e i reticolati, dove le camere a gas e i forni erano nascosti alla vista.
La guardia afferrò brutalmente la spalla del ragazzino. — Vieni con me, ebreo. Stangl si occuperà di te.
Il ragazzo non era l’unico a nascondere qualcosa sulla sua persona. Jubas Meyer era stato munito di una delle sei pistole rubate. Se il ragazzo fosse stato portato dal comandante Franz Stangl, senza dubbio avrebbe rivelato i piani della rivolta, ora a soli trenta minuti dall’inizio.
Meyer non poteva permettere che questo accadesse. Estrasse la pistola dalle pieghe del proprio camice, puntò il mirino sul grasso tedesco, e — fu come un orgasmo, la liberazione, il momento della ricompensa — premette il grilletto. Vide gli occhi del tedesco spalancarsi, vide la sua bocca aprirsi, vide la sua lardosa, orribile, odiosa forma accasciarsi al suolo.
Il segnale per l’inizio della rivolta avrebbe dovuto essere la detonazione di una granata, ma lo sparo di Meyer spinse tutti all’azione. Grida di «Adesso!» si levarono in tutto il campo inferiore. Venne dato fuoco ai bidoni di benzina. C’erano 850 ebrei nel campo quel giorno; corsero tutti verso i reticolati di filo spinato. Alcuni portarono coperte, gettandole di sopra per proteggersi mani e piedi dalle punte metalliche; altri avevano dei tagliafili, e in fretta e furia si aprirono la strada fra le recinzioni. Quelli con le pistole spararono a quante più guardie potevano. Fuoco e fumo furono ovunque. Le guardie che erano andate a nuotare si precipitarono a rientrare e montarono sui cavalli o si arrampicarono a bordo di autoblindo. Trecentocinquanta ebrei riuscirono a scavalcare i reticolati e raggiungere la foresta circostante. La maggior parte vennero facilmente circondati e falciati dalle pallottole, e gli ultimi suoni che sentirono furono gli echi delle raffiche di spari e le grida degli uccelli.
Eppure, per certuni la fuga ebbe successo. Corsero via nei boschi, e continuarono a correre per salvarsi la vita. Jubas Meyer era tra loro. Anche Shlomo Malamud ce la fece, e per tutta la vita intraprese la ricerca di suo fratello Saul. E anche altri che Jubas aveva conosciuto o sentito nominare riuscirono a mettersi al sicuro: Eliahu Rosenberg e Pinhas Epstein; Casimir Landowski e Zalmon Chudzik. E pure David Solomon.