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Pierre prese la provetta, chiuse lo sportello, spense la luce nella stanzetta, spense la luce dell’ufficio di Klimus, e chiuse, ma non a chiave, la porta d’ingresso. Camminò fino al proprio laboratorio, usò enzimi di restrizione per staccare qualche frammento di DNA da testare, poi li sottopose alla reazione a catena della polimerase per ottenere altri duplicati. Quando fosse tornato l’indomani, avrebbe trovato milioni di copie dei frammenti.

Si diresse di nuovo nell’ufficio di Klimus, rimise il contenitore dei campioni in frigorifero, chiuse la porta, fece girare la chiave, e se ne andò a casa, con l’adrenalina che gli scorreva nelle vene.

Il giorno dopo, mentre Pierre stava percorrendo il corridoio verso il laboratorio, udì squillare il suo telefono. Si affrettò, per quanto gli era possibile, aprì il laboratorio, e afferrò il telefono. — Pronto?

— Ciao, Pierre. Sono Helen Kawabata.

— Ciao, Helen.

— Sei fortunato. C’era un bel po’ di DNA sul rasoio di Bryan Proctor. La lama stava perdendo l’affilatura; l’aveva ovviamente usata per un lungo tempo. Comunque, dovrò essere in tribunale stamattina, ma puoi venire a prendere i campioni questo pomeriggio, se lo desideri.

— Mille grazie, Helen. Ti sono infinitamente grato.

— È il minimo che una «provvidenza» potesse fare. Ciao.

Pierre iniziò a comparare con la PCR il DNA di Amanda e di Hannah, non un profilo genetico completo, ma così si sarebbero avuti risultati in due giorni invece di due settimane. Poi prese la sua auto e attraversò il Bay Bridge fino a San Francisco, andò alla Centrale di polizia, raccolse i campioni refrigerati del DNA di Bryan Proctor, e guidò di nuovo fino al LBNL. Gli capitò di incontrare Shari Cohen in corridoio.

— Shari — disse Pierre — avresti la possibilità di farmi quella stessa serie di test su un altro campione, per favore?

— Certo.

— Grazie. Eccolo qui. Oh, e potresti anche controllare che ci sia un cromosoma Y presente? — C’era sempre una piccola probabilità che la signora Proctor avesse usato quel rasoio per le sue gambe o ascelle.

— Lo farò.

— Grazie. Fammi sapere non appena avrai i risultati.

Quella sera, Pierre tornò a casa, baciò Molly e Amanda, e si sedette sul divano per dare un’occhiata alla posta. Stava cercando di distogliere la mente dal DNA di Amanda; non avrebbe avuto i risultati fino a dopodomani.

Finalmente era comparsa la sua copia di «Maclean’s», con notizie adesso vecchie dì due settimane rispetto al Canada; era arrivata anche «Solaris». Si era fatto un punto d’onore di leggere riviste francesi per continuare a pensare primariamente in quel linguaggio. C’era anche l’estratto conto della sua Visa, e…

Ehi, qualcosa della Condor Health Insurance. Una grossa busta di carta gialla.

La aprì. Era il rendiconto annuale della compagnia, con una nota che annunciava la prossima assemblea generale annuale.

Molly gli si sedette accanto sul divano. Mentre Pierre dava uno sguardo all’annuncio dell’assemblea annuale, lei prese a sfogliare il rapporto. Era un sottile libriccino dalla copertina gialla e nera, con le stesse misure di un foglio standard di carta protocollo. — «La Condor è la compagnia assicurativa sanitaria numero uno nell’area nord-occidentale della costa del Pacifico» — disse, leggendo dalla prima pagina interna. — «Con preveggenza e con l’impegno a eccellere, provvediamo alla tranquillità di uno virgola sette milioni di detentori di polizze nella California settentrionale, in Oregon, e nello stato di Washington.»

— Tranquillità un cazzo — disse Pierre. — Dire a una madre incinta che deve abortire il bambino o perdere l’assicurazione, o dire a uno a rischio di Huntington che deve fare per forza il test genetico. — Tenne da parte l’avviso dell’assemblea. — Pensi che dovrei andare?

— Quand’è?

Diede un’occhiata. — Venerdì 18 ottobre. Cioè… cosa?… fra tre mesi.

— Certo. Fagli vedere di che pasta sei.

Era il primo di agosto. Pierre entrò in laboratorio di buon’ora, pronto a verificare le impronte del DNA di Hapless Hannah e Amanda Tardivel-Bond.

Tutto quel che doveva fare era guardare le autoradiografie, e…

Dannazione. Dannazione fottuta.

Ogni segno era uguale.

Trovò una sedia e vi si sedette prima di cadere a terra.

Sua figlia, la sua bambina, era un clone di una donna neanderthaliana che aveva vissuto ed era morta in Medio Oriente sessantaduemila anni prima. Era tutto…

— Dottor Tardivel?

Pierre alzò lo sguardo. Gli ci volle qualche istante per mettere a fuoco la vista. — Oh, ciao, Shari.

— Ho finito di testare quell’ultimo campione di DNA.

A Pierre stava ancora girando la testa. Fu quasi per dire «Quale campione di DNA?» Naturalmente: quello di Bryan Proctor, quello che Helen Kawabata aveva recuperato dal suo rasoio. — E?

Shari Cohen fece spallucce. — Nulla. Lui, perché era un uomo, è risultato negativo a ogni patologia genetica che ho provato.

— Diabete? Disturbi cardiaci? Alzheimer? Huntington?

— Pulito come un fischietto.

Pierre sospirò. — Grazie, Shari. Apprezzo il tuo aiuto.

— Va tutto bene, Pierre?

Pierre non poté guardarla negli occhi. — Benissimo. Tutto a posto.

Shari restò a fissarlo un altro istante, poi, con una lieve alzata di spalle, andò verso uno dei banconi del laboratorio e cominciò il suo lavoro. Pierre si appoggiò allo schienale. Era così sicuro di essere sulle tracce di qualcosa… qualche vasta cospirazione per l’eutanasia precoce di chi aveva davanti oscuri futuri genetici. Ma Chuck Hanratty aveva ucciso Bryan Proctor, un uomo senza alcuna patologia di rilievo. Non aveva senso.

Pierre diede un altro sguardo alle autoradiografie del DNA di Hannah e di Amanda, poi si alzò in piedi.

— Me ne vado a casa — disse a Shari passandole accanto.

— Sei sicuro che sia tutto okay? — chiese Shari. Pierre la udì, ma non se la sentì di rispondere. Raggiunse il parcheggio e trovò la sua macchina.

33

Pierre entrò dalla porta d’ingresso. Molly si precipitò ad accoglierlo, con la piccola Amanda che le trotterellava dietro.

— Be’? — disse Molly.

Pierre espirò, insicuro di come dare la notizia. — È un clone — disse semplicemente.

Anche se in origine era stata la prima a sospettarlo, Molly sbarrò gli occhi. — Quello stronzo — disse.

Pierre annuì.

Amanda ce l’aveva fatta ad arrivare fino a dove stava suo padre. Lo guardò coi grandi occhi marroni e tese le mani alzate verso di lui.

Pierre guardò giù. Amanda. Amanda Helene Tardivel… Bond. O…

O Hapless Hannah, Modello II.

Le sue braccine continuarono ad alzarsi verso di lui. Parve confusa che lui non la prendesse in braccio.

«No, dannazione» pensò Pierre. «No. È Amanda… è mia figlia.»

Abbassò le braccia e la sollevò da terra. Lei gli mise le braccia intorno al collo e si dimenò tutta, deliziata. Pierre la sostenne con una sola mano e le scompigliò i capelli castani con l’altra. — Come va? — le disse. — Come sta il tesorino di papà?

Amanda gli sorrise. Lui avrebbe voluto portarla sul divano del soggiorno, ma era rischioso. Invece la rimise giù, la prese per la manina, e insieme affrontarono la gran camminata fin lì. Lui si sedette e lei gli si arrampicò in grembo.