— Signor Lincoln — disse Abraham, alzandosi dalla poltrona di cuoio.
Lincoln si precipitò avanti, porgendogli la mano. — Grazie per avermi incontrato con così poco preavviso.
Abraham guardò la mano tesa di Lincoln. Poi il vecchio si decise finalmente a prenderla, e se le strinsero saldamente.
Pierre era rimasto a lavorare in cantina a casa… era imbarazzante andare al LBNL di quei tempi, dato che doveva essere Molly a guidare. Decise di risalire su in soggiorno per prendere dell’altra Diet Pepsi. Il caffè era diventato un modo troppo pericoloso di assumere la sua dose di caffeina mattutina: ormai rovesciava le bevande almeno una volta alla settimana, e non voleva scottarsi. E la Pepsi non dietetica conteneva tutto quello zucchero, avrebbe rovinato la tastiera o il computer se l’avesse rovesciata.
Naturalmente Pierre fece un bel po’ di rumore risalendo le scale, ma la lavapiatti era in funzione, e produceva abbastanza fracasso da coprire il suo. Quando entrò in soggiorno, vide Molly seduta con Amanda sul divano. Molly stava dicendo ad Amanda qualcosa che Pierre non riuscì a distinguere bene, e Amanda sembrava concentrarsi con molta, molta intensità.
Le osservò per un momento e fu lieto che la gelosia per l’intimità nata tra sua moglie e la figlia si fosse attenuata in lui. Sì, gli doleva ancora di non essere in grado di comunicare con lei nel modo che gli sarebbe piaciuto, ma stava cominciando a rendersi conto di quanto fosse importante quella speciale relazione fra Molly e Amanda. La bimba sembrava totalmente a suo agio col potere di Molly di raggiungere la sua mente e udire i suoi pensieri; era quasi un sollievo, per lei, poter comunicare senza sforzo con un altro essere umano. E il legame di Molly con Amanda andava anche oltre il normale attaccamento tra madre e figlia; Molly poteva toccare la stessa mente della bambina.
Pierre pensava ancora soprattutto in francese e sapeva che lo stava facendo come una forma di difesa subconscia, per non farsi leggere nei pensieri. Ma Amanda aveva accettato la capacità di sua madre fin dal principio, e non aveva eretto barriere tra sé e Molly; il loro era un rapporto che prescindeva dai normali legami e Pierre ne era, infine, contento, ben sapendo che dopo che lui se ne fosse andato, a Molly e Amanda sarebbe occorso quello speciale rapporto per sostenersi a vicenda, e affrontare insieme, come una sola persona, qualsiasi cosa il futuro potesse portar loro.
— Provaci ancora — disse ad Amanda Molly, volgendo la schiena a Pierre. — Puoi farcela.
Pierre avanzò nella stanza. — Che state tramando voi due? — chiese divertito.
Molly alzò gli occhi, sgomenta. — Niente — disse troppo in fretta. — Niente. — Sembrò imbarazzata. Gli occhi castani di Amanda si spalancarono, come quando veniva colta a fare qualcosa di male.
— Sembri il gatto che ha inghiottito il canarino — disse Pierre a Molly, con un sorriso divertito. — Che stai…
Squillò il telefono.
Molly balzò in piedi. — Lo prendo io — disse, dirigendosi in cucina. Un momento dopo, esclamò: — Pierre! È per te!
Pierre si trascinò con fatica verso la cucina. Il rumore della lavapiatti era irritante, ma gli ci sarebbero voluti diversi minuti per ridiscendere giù in cantina o salire in camera da letto e usare un telefono diverso.
— Pronto? — disse Pierre dopo aver preso la cornetta a sua moglie.
— Tardivel? Sono Meyer.
Molly si diresse di nuovo in soggiorno; Pierre poté appena sentirla tornare a parlare sottovoce ad Amanda.
— Abbiamo scartabellato i registri dell’immigrazione di Abraham Danielson — continuò Avi. — Aveva ragione; non è questo il suo vero nome. Niente di insolito in ciò, comunque; un sacco di immigranti si sono cambiati il nome quando sono giunti qui dopo la guerra. Stando alla domanda di visto, il suo vero nome è Avrom Danylchenko. Nato nel 1911, lo stesso anno di Ivan Marchenko, ma, del resto, anche Klimus, quindi questa non è affatto una prova decisiva. Viveva a Rijeka al tempo in cui fece domanda per venire negli States.
— Okay.
— Non riusciamo a trovare nulla di anteriore al 1945 su Avrom Danylchenko. Ma ancora una volta, questo non prova un accidente. Un sacco di documenti sono andati persi durante la guerra, e ci sono tonnellate di roba della vecchia Unione Sovietica che nessuno ha ancora passato al setaccio. Comunque, è interessante che l’ultima traccia che abbiamo di Ivan Marchenko è la testimonianza di Nikolai Shelaiev di averlo visto a Fiume nel 1944, e la prima traccia di Avrom Danylchenko è la sua domanda di visto, l’anno seguente a Rijeka. — Quant’è lontana Rijeka da Fiume?
— Me lo sono chiesto anch’io, dapprima non riuscivo a trovare Fiume sul mio atlante. È spuntato fuori, senta questa, che Fiume e Rijeka sono la stessa città. Fiume è il vecchio nome italiano della città.
— Gesù. Allora che farete adesso?
— Mostrerò la foto ai rimanenti superstiti di Treblinka. Domani prenderò un aereo per il New Mexico per vederne uno, dopodiché me ne andrò in Israele.
— Non potrebbe solo mandare per fax la foto alla polizia di là? — chiese Pierre.
— No, voglio essere a portata di mano. Voglio vedere i testimoni nel momento in cui guardano per la prima volta la foto. Siamo rimasti fottuti sul caso Demjanjuk perché non venne identificato adeguatamente. Yoram Sheftel, cioè l’avvocato israeliano di Demjanjuk, dice che in tutti i suoi anni di lavoro non ha mai visto una sola volta la polizia israeliana svolgere a dovere un’identificazione fotografica. Nel caso di Demjanjuk, hanno usato la foto di Demjanjuk mischiata con altre sette. Ma alcune foto erano più grandi o più chiare delle altre, e la maggior parte non avevano nemmeno una fuggevole rassomiglianza con l’uomo che i testimoni avevano descritto. Questa volta ci sarò io a supervisionare tutto, ogni fase della procedura. Non ci saranno più disguidi. — Una pausa. — Comunque, devo andare ora.
— Aspetti… un’ultima cosa.
— Chi è lei, «Colombo»?
Pierre restò sbigottito. Almeno era un miglioramento rispetto a tutti quelli che lo scambiavano per un piazzista. — Quando avete qualcuno in custodia, che genere di metodi di identificazione usate?
— Che vuol dire? — disse Avi.
— Che dovete tenere degli archivi, giusto? L’intero concetto su cui si basa la caccia ai nazisti è dimostrarne l’identità. Certamente se tenete qualcuno in custodia, dovete darvi da fare per assicurarvi di poter identificare di nuovo la stessa persona anni dopo, in caso di bisogno.
— Certo. Prendiamo impronte digitali, anche della retina…
— Prendete campioni di tessuto? Per l’identificazione del DNA?
— Questo genere di esami non è legale.
— Non è una risposta. Lo fate? È abbastanza facile, dopotutto. Tutto quello che vi occorre sono poche cellule. Lo fate?
— In forma non ufficiale, sì.
— Lo facevate anche negli anni ’80?
— Sì.
— Avete un campione di tessuto di John Demjanjuk ancora in archivio?
— Immagino di sì. Perché?
— Lo prenda. E lo faccia spedire al mio laboratorio con il Federal Express.
— Perché?
— Lo faccia e basta. Se ho ragione potrò svelare il mistero di cosa esattamente andò storto al processo di Ivan il Terribile a Gerusalemme, tanti anni fa.
39
Il telefono squillò di nuovo il giorno dopo. Pierre era giù in cantina, e stavolta prese la chiamata da lì. — Pronto?
— Tardivel, sono Meyer. Sto chiamando dall’aeroporto O’Hare. Ho visto Zalmon Chudzik stamattina; è uno dei superstiti di Treblinka che ora vivono negli States.
— E?
— E quel povero bastardo si è preso l’Alzheimer.
— Merde.