Il vecchio si voltò fronteggiando Avi. — Dov’è? L’avete preso?
— È negli Stati Uniti.
— Lo porterete qui? Per un processo?
— Sì.
Il vecchio restò in silenzio per lungo tempo, poi: — Sì, firmerò la deposizione. Avete paura che io muoia prima del processo, non è vero? Paura che non vivrò tanto da identificarlo in tribunale?
Avi non disse nulla.
— Io vivrò — disse semplicemente il vecchio. — Mi avete dato qualcosa per cui vivere. — Allungò una mano, cercando quella di Avi. Si toccarono, e Avi sentì la pelle ruvida e floscia dell’altro. Mentre tendeva il braccio, la manica di Malamud gli scivolò su per l’avambraccio, rivelando il tatuaggio del suo numero di serie. — Grazie — disse Malamud. — Grazie per portarlo davanti alla giustizia. — Una pausa. — Come ha detto che era il suo nome?
— Meyer, signore. Agente Avi Meyer, del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.
— Conoscevo qualcuno di nome Meyer, a Treblinka. Jubas Meyer. Era il mio aiutante a rimuovere i corpi.
Avi si sentì le lacrime agli occhi. — Quello era mio padre.
— Un brav’uomo, Jubas.
— È morto prima che nascessi — disse Avi. — Come… com’era?
— Si sieda — disse Malamud — e glielo racconterò.
Avi guardò Tischler, cercando con gli occhi l’indulgenza del poliziotto israeliano. — Faccia pure — disse Tischler gentilmente. — La famiglia è importante.
Avi prese una sedia, col cuore che gli batteva forte.
Malamud gli narrò di Jubas, e Avi ascoltò, rapito. Quando il vecchio ebbe raccontato tutto quel che poteva ricordare, Avi gli strinse la mano di nuovo. — Grazie — disse. — Grazie tante, tante.
Malamud scosse il capo. — No, giovane… grazie a «lei». Grazie da entrambi, da me e da suo padre. Sarebbe stato molto orgoglioso di lei, oggi.
Avi sorrise, ricacciando indietro le lacrime.
Pierre aveva fatto dei test su vari tipi di DNA di primati raccolti allo zoo, determinando non solo il grado di divergenza genetica ma anche in che modo specifico variavano fra loro nei segmenti chiave dei loro cromosomi tredici. Pierre e Shari erano ora immersi nella progettazione di una simulazione computerizzata. Integrarono tutti i dati che avevano sulla metilazione della citosina, tutti gli schemi che avevano individuato negli introni umani e non umani, tutte le idee che avevano sul significato dei sinonimi dei codoni.
Era un progetto imponente, con un’enorme base di dati. La simulazione era di gran lunga troppo complessa perché la svolgessero in un ragionevole lasso di tempo sul PC del loro laboratorio. Ma il LBNL aveva un supercomputer Cray, una macchina che poteva calcolare il corso delle galassie in un batter di ciglio. Tempo prima Pierre aveva sottoposto una richiesta per usare il Cray, ed era lentamente risalito lungo la lista. Il suo turno era in programma due settimane più tardi.
Gli sarebbe occorso ogni minuto di quel tempo per allestire la simulazione, ma, presumendo che funzionasse tutto, avrebbero infine avuto le risposte che andavano cercando.
— David Solomon?
— Sì?
— Mi chiamo Avi Meyer, del governo degli Stati Uniti. Questo è il detective Izzy Tischler della polizia israeliana. Desidereremmo mostrarle delle foto, e vedere se riconosce qualche persona.
Solomon aveva una faccia simile a un sacchetto di carta spiegazzato, abbronzata e irruvidita dall’esposizione al sole e al vento. L’unica parte aguzza era il suo naso, una cosa enorme, curva ad artiglio come un becco d’aquila, solcata sull’intera superficie da una ragnatela di minuscoli vasi sanguigni. Le sue iridi erano di un marrone così scuro che le pupille quasi vi si perdevano, e il resto dei globi oculari era più giallo che bianco, iniettato di vene.
— Perché? — chiese Solomon.
— Potrò dirglielo dopo che avrà guardato le foto — disse Avi.
Solomon scrollò le spalle. — Va bene.
— Possiamo entrare?
Un’altra alzata di spalle. — Sicuro. — Il vecchio si trascinò in soggiorno e si sedette su un divano logoro. Non c’era aria condizionata; l’afa era opprimente. Tischler tolse con cautela un vaso dal tavolino da caffè e, non trovando nessun altro posto per metterlo giù, si limitò a tenerlo in mano. Avi piazzò il registratore sul tavolino, poi spiegò di nuovo il foglio con le sue tre file di otto foto. Solomon si tolse il paio di occhiali che portava e li sostituì con un altro paio tratto dal taschino sul petto. — Queste sono persone che…
— Ivan Marchenko! — disse l’uomo d’un tratto. Avi si tese in avanti, ansioso. — Quale?
— La fila di mezzo. La terza.
Avi sentì un tuffo al cuore. La terza foto nella fila di mezzo era effettivamente di un uomo calvo e dal viso tondo, ma non era Marchenko; invece, era un guardiano della sede centrale dell’osi a Washington. Avi sapeva che se avesse fatto qualche domanda… «Ne è sicuro? Non c’è qualcun altro che somigli di più a Ivan?»… gli avvocati della difesa l’avrebbero scacciato ridendo dalla corte. Invece, incapace di mascherare il disappunto nella voce, Avi disse semplicemente: — Grazie — e si accinse a richiudere il foglio.
Ma Solomon era chino sulle immagini. — Riconoscerei ovunque quella faccia — disse. Tese un dito nodoso e batté sulla sesta foto nella fila di otto.
Avi sentì un flusso di adrenalina. — Ma aveva detto la terza foto…
— Certo. La terza da destra. — L’uomo guardò Avi. — Il suo è un accento americano, vero? L’ebraico va da destra a sinistra. Non lo legge?
Avi rise forte. — Non quanto dovrei, ovviamente.
— Tardivel, sono Avi Meyer.
— Com’è andata?
— Ho due identificazioni positive.
— Straordinario!
— Tornerò in volo a Washington fra pochi giorni; ho ancora del lavoro da fare con la polizia israeliana. Aiutarli a stendere una richiesta di estradizione.
— No. Prenda un volo per qui. Venga a San Francisco. Ho qualcosa che le interesserà vedere.
40
Pierre tentò di ignorare il modo in cui Avi Meyer lo stava guardando. Erano passati ventisei mesi dall’ultima volta che si erano visti faccia a faccia, e sebbene Pierre avesse parlato ad Avi per telefono delle sue condizioni, Avi non aveva realmente visto Pierre colpito dalla corea fino a quel giorno.
Pierre lentamente, attentamente, posò due autoradiografie sul ripiano luminoso del bancone, e poi, con le mani che danzavano, cercò di allinearle l’una a fianco all’altra. Si sedette su uno sgabello del laboratorio, poi fece cenno ad Avi di farsi avanti e guardarle. — Va bene — disse Pierre — che cosa vede?
Avi si strinse nelle spalle, non sapendo quel che Pierre voleva dicesse. — Un mucchio di linee nere?
— Giusto… quasi come i codici a barre che si vedono sulle confezioni di alimentari. Ma questi codici a barre… — batté un dito tremolante su uno dei pezzi di pellicola — …sono le impronte del DNA di due persone diverse.
— Chi?
— Ci arriverò fra un minuto. Vede che i codici a barre sono alquanto differenti, no?
Avi annuì con la testa da bulldog.
— C’è una grossa linea nera qui — disse Pierre, indicando di nuovo con un dito tremante — e non c’è nessuna linea nera in corrispondenza sull’altro foglio. Giusto?
Avi annuì ancora.
— Ma alcune delle linee nere sono le stesse, non è vero? Ecco una linea sottile, e, guardi!, l’altra persona ha un’altra linea sottile esattamente nello stesso punto.
Avi sembrò impaziente. — Così pare.
— Ora, dia una buona occhiata da vicino alle due impronte, e mi dica di quanto pensa che si sovrappongano.