Il banco dei giudici era sul palcoscenico: tre poltrone di cuoio dall’alto schienale, con quella al centro ancora più alta delle altre due. Su ogni lato c’era una bandiera israeliana azzurra e bianca. Sulla sinistra del palcoscenico, il tavolo del pubblico ministero e il banco dei testimoni; sulla destra, il tavolo degli avvocati difensori e, proprio dietro di loro, il banco degli imputati dove Demjanjuk, con indosso una camicia dal collo aperto e una giacca blu sportiva, sedeva col suo interprete e una guardia. Tutto l’arredamento era di legno chiaro lucido. Il palcoscenico era rialzato di un metro abbondante sopra i posti riservati al pubblico generico. In fondo al teatro si allineavano le telecamere; il processo veniva trasmesso in diretta.
Il processo era ormai in corso da una settimana. Avi Meyer, lì come osservatore dell’osi, ammazzava il tempo in attesa che venisse convocata la corte rileggendo un tascabile di Il buio oltre la siepe. Quel romanzo di Harper Lee l’aveva colpito profondamente la prima volta che l’aveva letto all’università. Non che le esperienze della protagonista, la signorina Jean Louise Finch, cioè, avessero qualche rassomiglianza con quelle da lui vissute a Chicago. Ma la storia della verità che celiamo, della ricerca di giustizia era senza tempo.
In effetti, forse quel libro l’aveva influenzato, nella sua decisione di unirsi all’osi, quanto i fantasmi della famiglia che non aveva mai conosciuto. Tom Robinson, un uomo di colore, era accusato di aver stuprato una ragazza bianca di nome Mayella Ewell. L’unica evidenza fisica era il viso pieno di lividi di Mayella: era stata presa ripetutamente a pugni da un uomo che aveva usato la sinistra. Suo padre, un crudele fallito ubriacone, era mancino. Tom Robinson era uno storpio; il suo braccio sinistro era venticinque centimetri più corto del destro, e finiva con una minuscola mano rattrappita. Tom aveva testimoniato che Mayella gli si era gettata addosso, che lui aveva respinto i suoi approcci, e che suo padre l’aveva picchiata per aver adescato un nero. Non c’era un briciolo di prova per sostenere l’accusa di stupro, e Tom Robinson era fisicamente incapace di infliggere quelle lesioni.
Ma in quella sonnacchiosa cittadina del sud, Maycomb, Alabama, la giuria di soli bianchi e soli maschi aveva dichiarato Tom Robinson colpevole delle accuse. La testimonianza di una ragazza bianca «doveva» avere il sopravvento su quella di un uomo di colore, e, be’, anche se Robinson non era responsabile di quel particolare crimine, era un inutile nero e senza dubbio colpevole di qualcos’altro.
Che la giustizia necessitasse di validi guardiani non poteva esserci dubbio. E ce n’era stato uno in Il buio oltre la siepe: il padre di Jean Louise avvocato, Atticus Finch, che aveva rappresentato Tom nonostante le calunnie dei compaesani, fornendogli una difesa intelligente, vigorosa, solenne.
A quei tempi, negli anni Trenta, il tribunale, come tutto il resto, era stato segregato. I negri dovevano sedere sulla balconata. Jean Louise e suo fratello Jem si erano intrufolati nell’aula e avevano trovato un posto per osservare da lassù, vicino al gentile reverendo Sykes.
Quando il caso era stato risolto, quando Tom Robinson era stato portato via in prigione, quando tutti i bianchi se n’erano andati, i negri avevano atteso in silenzio che Atticus Finch raccogliesse i suoi libri di legge. Quando era stato pronto per uscire, gli uomini e le donne di colore, sapendo fino al midollo che Tom era innocente, che questa era la loro sorte, che Atticus aveva fatto tutto il possibile, si erano levati in piedi, in segno di silenzioso rispetto. Il reverendo Sykes aveva parlato alla giovane figlia di Atticus. — Signorina Jean Louise — aveva detto — si alzi. Sta passando suo padre.
Anche nella sconfitta, un uomo giusto è onorato da quelli che sanno che ha fatto del suo meglio per una causa onorevole. «Sta passando suo padre…»
Il giudice della corte suprema Dov Levin e i giudici distrettuali di Gerusalemme Zvi Tal e Dalia Dorner, il tribunale che avrebbe deciso il destino di John Demjanjuk, entrarono nel teatro. Non appena i tre si furono seduti, il cancelliere si alzò e annunciò: — Belt hamishpat! Lo stato di Israele contro Ivan «John», figlio di Nikolai Demjanjuk, caso criminale numero 373/86 presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, secondo la Legge per la Punizione dei Nazisti e dei loro Collaboratori. Oggi 24 Shevat 5747, 23 febbraio 1987, seduta mattutina della corte.
Avi Meyer ripiegò l’angolo di una pagina come segnalibro.
— Il mio nome è Pinhas, Epstein, figlio di Dov e Sara. Sono nato a Czestochowa, Polonia, il 3 marzo 1925. Vivevo lì coi miei genitori fino al giorno in cui fummo portati a Treblinka.
Avi Meyer, che aveva appena compiuto i quaranta e quindi era particolarmente sensibile ai segni dell’invecchiamento, pensò che Epstein sembrava dieci anni più giovane dei suoi sessantadue. Era alto, con la testa coperta di capelli rossastri pettinati all’indietro, che scoprivano la fronte.
I tre giudici ascoltavano assorti: il barbuto Zvi Tal, con folti capelli grigi; Dov Levin, arcigno, semicalvo, con occhiali dalla montatura di corno; e Dalia Dorner, coi capelli tagliati corti, che indossava giacca e cravatta proprio come i suoi colleghi maschi.
— Vostri onori — disse Epstein, rivolgendosi a loro — ricordo un avvenimento… ho ancora gli incubi al riguardo. Un giorno, una ragazzina riuscì a sfuggire viva dalla camera a gas. Aveva dodici o quattordici anni. Come Jubas Meyer, Shlomo Malamud e altri, ero costretto a trasportare i cadaveri, rimuovendo i morti dalle camere. — Avi Meyer si drizzò a sedere sentendo menzionare il nome di suo padre. — Le parole della ragazzina… ce le ho ancora nelle orecchie — disse Epstein. — «Mamma! Mamma!» — Si interruppe un momento e si asciugò le lacrime dagli occhi. — Be’, Ivan andò appresso a Jubas, e…
Avi Meyer sentì battere il cuore. La voce di Epstein si era spenta, e ora lo sguardo dell’uomo passava da un giudice all’altro, indugiando più a lungo su Dalia Dorner, come se fosse intimidito da quella presenza femminile.
— Mi dispiace — disse il testimone. — Mi vergogno troppo a ripetere le parole che Ivan usò in seguito.
Dov Levin aggrottò la fronte e si tolse gli occhiali. — Se è importante che sentiamo le parole, le dica.
Epstein tirò forte il respiro, poi: — Picchiò Jubas, poi urlò «Davay yebatsa»…
Levin alzò le folte sopracciglia nere. — Che significa?
Epstein si dimenò sulla sedia. — «Vieni a fottere» in russo. Stava dicendo a Jubas… togliti i pantaloni e vieni a fottere. E indicò la ragazza terrorizzata.
Avi Meyer sentì il gusto della bile in fondo alla gola. Pensava di aver udito tutti gli orrori ventisette anni prima, dopo il suo bar mitzvah. Sua madre era morta, ora; sperò che non avesse mai saputo.
Mickey Shaked, il pubblico ministero israeliano, aveva una testa piena di capelli ricci e occhi tristi, espressivi. Pose di fronte a Epstein un foglio di cartone con sopra otto fotografie: due file di tre foto e un’ultima fila di due. Tutte erano di ucraini sospettati di crimini di guerra. Le prime cinque foto erano tolte da passaporti; la sesta era ritagliata da qualche altro documento. Solo la settima e l’ottava erano di formato regolare, quasi due volte più grandi delle altre. Delle otto foto, solo la settima mostrava un uomo quasi totalmente calvo; solo la settima mostrava un uomo dalla faccia tonda.