Forse ce l’avrei fatta. I minuti continuavano a trascorrere. Ognuno sembrava impiegarci un anno: ma passavano. Ognuno mi portava circa sessanta metri più vicino alle ondate tempestose, se c’erano ancora. Non mi ero preso il disturbo di controllare le previsioni meteorologiche, oltre al momento in cui era stata fissata la mia immersione, ed ero rimasto sul fondo diverse ore. Non sono affatto impervio al mal di mare, ma mi auguravo che il moto ondoso fosse ancora abbastanza vivace da farmelo venire, questa volta. Forse sarebbe riuscito anche a costringere il mio amico, là fuori, a mollare l’appiglio cui stava aggrappato. Ecco, potevo sperare anche in questo.
Ma prima doveva arrivarci, a quelle onde, e mancavano ancora ottocento metri. E quello continuava a battere. Se fossi stato in qualunque altro posto, avrei preferito ormai la goccia d’acqua della tortura cinese, ma non era il luogo più adatto per augurarsi sgocciolii. Cercai di non ascoltare il rumore, rivolgendo l’attenzione ad altre cose, per esempio l’indicatore di pressione (l’ago ondeggiava leggermente, forse per il moto ondoso alla superficie) o il problema del cibo. Se lassù c’era ancora in corso una mareggiata, avrei fatto meglio a non mangiar niente.
Continuavo a spostarmi da un oblò all’altro, nel tentativo frenetico ma vano di individuare il sommergibile che senza dubbio si stava avvicinando: ma il mio passeggero lo vide prima di me.
CAPITOLO 6
Compresi che cos’era successo quando il battito regolare si trasformò di nuovo nel codice complesso, ma impiegai un altro mezzo minuto per scorgere la luce che si avvicinava. Da nessuno degli oblò avevo un ampio angolo di visuale.
Tutto ciò che potei vedere in un primo momento fu la luce, una scintilla solitaria su uno sfondo tenebroso come lo spazio: ma non potevano esserci dubbi. Era un poco più in basso di noi, da un lato. Cambiò comportamento, quando divenne più luminosa. A quanto pareva, si stava avvicinando su di una rotta a spirale, tenendo il suono ad un angolo costante rispetto alla prua, in modo che il pilota avesse sempre un’idea precisa della distanza che lo separava dalla sorgente sonora.
Anche quando venne più vicino faticai a distinguerlo chiaramente, perché il riflettore principale era puntato dritto sulla capsula, e la radiazione diffusa era troppo scarsa per mostrare qualcosa di preciso. Questo, evidentemente, infastidì anche il mio passeggero, che si affrettò a trasmettere un altro messaggio in codice, mentre il sommergibile si fermava a una trentina di metri di distanza; e la luce si spense. Al suo posto, una dozzina di raggi più piccoli illuminò l’intera area; nessuno era rivolto direttamente verso di noi, e perciò potei scorgere abbastanza bene il nuovo arrivato.
Non somigliava esattamente ai sommergibili che conoscevo io, tuttavia era abbastanza simile ad alcuni modelli da offrirmi qualche termine di riferimento. Era piccolo, monoposto o biposto, e non era costruito per le grandi velocità: all’esterno era bene attrezzato, con congegni di manipolazione… estensioni snodate a braccio e a forma di mano, grappe, sonde, più qualcosa che sembrava uno scavatore a getto d’acqua. Una delle mie speranze si spense rapidamente: avevo pensato che forse un piccolo sommergibile non avrebbe avuto un galleggiamento negativo sufficiente per trascinare la capsula verso il fondo, ma quello era dotato di grosse camere di sollevamento, e quindi doveva avere anche una quantità corrispondente di zavorra. Evidentemente, tra le altre cose poteva fungere da rimorchiatore. Se mi avesse abbrancato, avrebbe potuto trascinarmi benissimo sul fondo: ed era difficile immaginare come fosse possibile impedire che mi catturasse. Per cercare di tenerlo lontano, avevo a disposizione soltanto le gambe metalliche.
Non sapevo quanto potessero essermi utili, ma tenevo le dita accostate al quadro dei comandi, deciso a non lasciarmi sfuggire un’eventuale occasione favorevole. Almeno, adesso che mi si prospettava una possibilità di agire, non stavo più. lì a rodermi come avevo fatto prima della comparsa del sommergibile.
Come primo tentativo, il pilota si portò al di sopra della capsula e si abbassò. Doveva essere un tipo che amava le scene sensazionali, perché era difficile immaginare un sistema meno efficiente per affondare un oggetto rotondo. Pensai che avrebbe passato i guai suoi, ma il mio passeggero non sembrava preoccupato, e devo ammettere che quel tipo sapeva manovrare il suo sommergibile. Il sommozzatore lo guidò agitando le braccia, in modo che io venissi a trovarmi sotto il centro di galleggiamento: e il contatto venne stabilito. Il mio contatore di pressione indicò subito che il movimento ascensionale si era invertito.
Attesi qualche secondo, nella speranza che il mio passeggero abusivo salisse a bordo del sommergibile, ma quello non ne fece nulla: e finalmente gli mostrai la mia tecnica. Era abbastanza semplice… più semplice che rotolare sul fondo marino, poiché la superficie sopra di me era assai più liscia. Inoltre, non dovevo andare lontano, per ottenere qualcosa: bastava un lieve spostamento rispetto al centro di gravità per dare alla capsula uno slancio che era troppo sia per i suoi tempi di reazione che per i suoi reattori d’assetto. Poiché aveva abbastanza peso per sopraffare la mia spinta ascensionale, il sommergibile si inclinò, ed io ripresi a salire.
Purtroppo, come ebbi modo di scoprire subito, il mio passeggero abusivo era ancora con me. Ricominciò a battere pochi secondi dopo che mi ero svincolato. Il suo amico, evidentemente, impiegò un po’ di tempo per ridare un assetto decente al suo mezzo (potevo capirlo: rigirarsi nell’acqua, con un paio di tonnellate di zavorra per giunta, è un problema per qualunque sommergibile), ma ritornò all’attacco anche troppo presto. Non aveva più voglia di far scena: mi piombò addosso direttamente, con una grappa protesa.
Accesi i riflettori esterni, un po’ per rendergli più difficile l’impresa e un po’ per vederci meglio io. Sarebbe stata una faccenda seria per entrambi: lui doveva trovare qualcosa che la mano meccanica potesse afferrare, e io dovevo spostare il peso del mio corpo in modo da girare la capsula quanto bastava per mettere in linea una zampa metallica e per realizzare quel che avevo in mente. Per fortuna avevo appena fatto un po’ di pratica sul fondo. Almeno adesso sapevo con precisione dove schizzava fuori ognuna delle gambe, rispetto alla posizione degli oblò.
La prima volta lo colsi di sorpresa. Non aveva preso in considerazione tutte le possibilità di azione di quelle gambe… forse non sapeva neppure quante potevo usarne, sebbene dall’esterno fossero abbastanza visibili. Lui seguiva molto bene il mio movimento ascensionale, sebbene io riuscissi ad ostacolarlo un po’ spostando il mio peso e variando la presentazione frontale della capsula leggermente irregolare. Dato che il moto verticale relativo era in pratica eguale a zero, il sommergibile avanzò lentamente con la mano meccanica protesa, in cerca di una sporgenza qualunque… non potevo sapere che cosa avesse in mente. Feci roteare la capsula quanto bastava per mettere una gamba esattamente in linea con la grappa, e quando questa fu a circa mezzo metro di distanza, la feci estroflettere di colpo.
La molla era molto robusta. Ricordate, era stata fatta per mantenere la capsula in equilibrio su di una pendenza, con la zavorra ancora attaccata. Gli ingegneri che l’avevano costruita sarebbero stati in grado di dirvi esattamente quanti chilogrammi di spinta poteva dare. Io non lo so: comunque, la sentii. Il sommergibile e la capsula si allontanarono uno dall’altra. La linea di spinta non passava esattamente dal centro del mio guscio, e ne risultò una notevole rotazione. Il sommergibile non roteò. O la spinta era meglio centrata per lui, oppure questa volta il pilota fu più rapido ad azionare i reattori di assetto.