Выбрать главу

Se avessero completato la manovra, sarei stato spacciato. Li osservai meglio che potevo, cercando di scoprire se c’era un peso maggiore della rete da una parte che dall’altra. Individuai quella che mi sembrò una possibilità di interrompere la loro attività, mentre guardavo meglio, e purtroppo ne approfittai.

Uno degli uomini era vicino alla capsula, un po’ più in basso, ed era impegnato ad accostare una sezione della rete. Forse era il pilota… la luce era buona, ma non persi tempo a controllare. Comunque, non conosceva la disposizione delle gambe metalliche come la conosceva il suo compagno. Era proprio sulla traiettoria di una di esse: e la feci scattare.

La mia intenzione, se pure ne avevo una (in realtà non persi tempo a pensare) era di toglierlo di mezzo per avere una possibilità di ruzzolare fuori dalla rete. Certamente non avevo intenzione di causargli lesioni gravi o permanenti. Il disco terminale della gamba, però, lo colpì al fianco destro: difficilmente avrebbe potuto evitare di spezzargli qualche costola. Lo scaraventò lontano, come uno squalo colpito a testate da un delfino. La corda che stringeva volò praticamente via dalla sua mano destra, e un utensile che non riuscii a identificare gli cadde dalla sinistra. Cominciò a sprofondare.

L’altro gli fu accanto prima che uscisse dal cerchio di luce. Evidentemente aveva perso i sensi; il suo corpo era inerte, quando il suo compagno lo rimorchiò in alto, verso il sommergibile. Io non stetti ad osservare con molta attenzione, un po’ perché cercavo di rotolare fuori dalla rete, e un po’ perché ero pentito di ciò che avevo fatto.

Anche rotolando, non riuscii a combinare molto. Avevano già fatto alcuni nodi, e, a quanto pareva ero destinato a restare dov’ero. Riuscii a fare un mezzo giro, portando in alto quello che era stato il fondo della sfera al momento della cattura, ma non servì a niente. La rete si avviluppò ancora più strettamente intorno alla capsula.

Ormai mi trovavo un po’ al di sopra del sommergibile — come ho detto, l’avevano regolato in modo che salisse più lentamente di me — e la tensione del cavo che lo univa alla rete mi faceva dondolare direttamente sopra di esso. Inoltre, notai che faceva inclinare il sommergibile, perché il cavo non era fissato nei pressi del suo baricentro. Restai di vedetta, impotente ma pieno di speranza, per scoprire se quell’unica fune era abbastanza robusta per trascinarmi giù, quando loro avessero veramente applicato del peso al sommergibile.

Non lo scoprii. L’uomo illeso si portò dietro a rimorchio il compagno, aprì il portello principale e con qualche difficoltà lo caricò a bordo. Fino a quel momento, stavamo ancora salendo. Adesso il sommergibile parve acquistare peso, perché il cavo si tese e il mio indicatore di pressione invertì nuovamente la direzione. Il sommergibile, che si era stabilizzato dopo che gli uomini erano saliti, ora s’inclinò bruscamente di poppa. Evidentemente la trazione ascensionale malcentrata, comunicata dal cavo della rete, era troppo forte per controbilanciarla sganciando zavorra, almeno se nei serbatoi c’era un peso totale sufficiente per proseguire la discesa. A quanto sembrava, era più importante riportarmi giù che mantenere in assetto il loro mezzo. Io continuavo a guardare, tenendo le dita incrociate, augurandomi che il cavo cedesse.

A cedere, invece, fu la pazienza di qualcuno. Forse il sommozzatore che avevo colpito era ferito gravemente, anche se mi auguravo di no: ma quale che ne fosse la causa, l’uomo che adesso pilotava il sommergibile decise che era necessario sbrigarsi.

All’improvviso sganciò la corda, la rete e tutto, e in pochi secondi scomparve. Finalmente ero solo, diretto nuovamente verso la superficie. Era quasi una delusione, dopo tanti sforzi.

E fu anche un enorme sollievo. Il duello, se vogliamo chiamarlo così, era durato soltanto dieci o quindici minuti complessivamente, e di certo non mi era costato una grande fatica fisica; ma mi sentivo come se avessi combattuto dieci round contro qualcuno di una categoria superiore alla mia.

Adesso ero al sicuro. Non c’era pericolo che mi ritrovassero, senza sonar, senza nessuno aggrappato all’esterno del mio scafo e intento ad irradiare onde sonore, e con la mia sfera a luci spente… mi affrettai a spegnerle non appena questo pensiero mi attraversò la mente. Avevo meno di seicento metri di risalita… non più di dieci minuti, a meno che il peso della rete e della corda non comportassero una notevole differenza. Tenni d’occhio per un po’ gli indicatori e decisi che non modificavano affatto la velocità ascensionale; e per la prima volta da quando avevo lasciato la superficie, mi addormentai.

CAPITOLO 7

Mi svegliai, sentendomi sballottare; la tempesta non era cessata. Più esattamente, mi svegliai perché andai a sbattere con la testa contro uno spigolo del quadro dei comandi.

La botta non era stata abbastanza forte da danneggiare il quadro o la mia testa, ma era fastidiosa. Ed era fastidiosa anche la situazione. Sballonzolare su e giù, su onde alte cinque metri, è già una gran brutta faccenda con una imbarcazione stabile, ma dentro a un contenitore quasi sferico, che in pratica non ha preferenze tra su e giù, e infinitamente peggio. Ero stato nello spazio in condizioni d’imponderabilità, e non è uno scherzo: ma preferirei mille volte ritrovarmici, piuttosto di venire trasformato in un pallone umano da pallavolo nel mezzo di una tempesta del Pacifico, sia pure di proporzioni ridotte. Non se ne erano preoccupati troppo, quando avevano progettato le capsule di salvataggio per sommergibili. L’idea ispiratrice era arrivare alla superficie, non stare comodi dopo esserci arrivati. Tutto quello che potei fare fu accendere l’emittente per lanciare l’invocazione di aiuto e cercare di tenere lo stomaco a posto.

Non potevo neppure essere sicuro che qualcuno lo ricevesse… il mio segnale, voglio dire. C’era da scommettere che lo avrebbero captato, dato che stavano aspettando il mio ritorno. Ma già parecchie scommesse sicure, ultimamente, non avevano pagato.

Non potevo neppure dormire. Per fortuna, avevo avuto il buon senso di non mangiare, quando prima me ne era venuta l’idea, quindi non potevo fare neppure ciò che in quel momento il mio stomaco desiderava di più. Non potevo far niente. La situazione era sgradevole, fisicamente, quanto lo era stata mentalmente la discesa.

Ma è inutile che cerchi di renderla in modo più chiaro: c’è anche rischio che ci riesca.

Mi rammaricai di non essermi preso la briga di accertare per quanto tempo era previsto che durasse la tempesta. Allora avrei potuto trarre qualche consolazione guardando di tanto in tanto l’orologio. Scoprii presto invece, che era meglio non guardarlo: il tempo trascorso dall’ultima occhiata era sempre meno di quanto pensassi io. Come accertai poi, sarebbe stato bene che tenessi d’occhio alcuni degli altri strumenti, anche se la loro lettura non mi sarebbe stata di conforto… e comunque non avrei potuto far nulla egualmente.

Non avrei mai creduto che la fine di quel movimento potesse darmi una sensazione diversa dal sollievo. Se qualcuno mi avesse detto che mi avrebbe fatto sentire peggio, l’avrei picchiato per paura che riuscisse a convincermene. Purtroppo, era proprio così. La fine venne troppo all’improvviso.

Il primo movimento che cessò fu il rotolio. La capsula ballonzolava ancora in su e in giù, ma sembrava aver acquisito una base e una sommità. Poi anche l’oscillazione verticale diminuì e finalmente cessò. Ormai l’indicatore di pressione non poteva rivelarmi nulla che non sapessi già: comunque, lo guardai egualmente.

Non mi ero ingannato. La capsula stava ridiscendendo.

C’era una cosa sola di cui non dovevo preoccuparmi: quello non era un affondamento naturale. L’unico spazio cavo che dava alla sfera la galleggiabilità era quello in cui mi trovavo, e se avesse avuto infiltrazioni, lo avrei già saputo. No, mi stavano tirando giù; e pur ammettendo che esistono le piovre giganti, non pensai neppure per un istante che fosse una di esse a compiere l’impresa. Il monitor del sonar era spento, adesso… ma forse non lo era stato durante l’ultima ora… non lo sapevo, comunque.