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Avrei dovuto pensare di più a quel particolare, anche se sarebbe servito a far precipitare di nuovo il mio morale. Così, potevo credere che l’installazione sarebbe stata trovata presto, anche se non avessero trovato me.

La grande camera non presentava molti particolari degni di nota. In un primo momento pensai che fosse un vano stagno, o il vestibolo di uno di essi, ma la grande galleria che vi sfociava non aveva porte. Alle pareti c’erano pannelli più piccoli, che potevano essere portelli: alcuni erano di dimensioni sufficienti per lasciare passare un essere umano.

I sommozzatori mi rimorchiarono dentro la galleria. Aveva un diametro di sei metri abbondanti, molto più di quanto fosse necessario per la capsula, ed era illuminata quasi come la camera che avevamo appena lasciato. Provai di nuovo un impulso di collera nei confronti di quegli individui che sperperavano l’energia con tanta disinvoltura. E cominciavo anche a domandarmi dove potevano procurarsene tanta. Naturalmente, nel mio lavoro mi ero imbattuto altre volte in contrabbandieri di energia: ma non avevo mai visto un’organizzazione come quella.

Percorremmo soltanto pochi metri, una ventina al massimo, prima di arrivare in un’altra grande camera. Mi trainarono lì dentro. C’erano molte altre gallerie più piccole, o pozzi, dovrei dire, che si aprivano sul pavimento: ne contai otto, ad una prima occhiata. Nessuna di quelle aperture aveva portelli. A quanto pareva, gran parte dell’installazione era allagata, e sottoposta alla pressione esterna. Forse era una miniera: questo avrebbe spiegato l’abbondanza di energia, se veniva estratto uranio o torio; e non sarebbe stato semplice mantenere sgombri dall’acqua tutti i pozzi e i corridoi tortuosi di una miniera sottomarina.

Ebbi giusto il tempo di formulare questo pensiero, mentre i sommozzatori posavano la capsula sul fondo. Cominciò a rotolare un po’, ed io feci estroflettere tre gambe metalliche per bloccarla. Per fortuna, tutte e tre si infilarono attraverso le maglie della rete, senza incastrarsi. Poi guardai gli uomini che mi attorniavano, per vedere che cosa avrebbero fatto. Chiaramente, la mossa toccava a loro.

Adesso ci sono abituato, ma non è piacevole il ricordo di quello che fecero, e l’effetto che fece a me.

Si tolsero i caschi. Ad una profondità di un miglio sotto il livello del mare, con una pressione che avrebbe schiacciato le spugne e appiattito il metallo, si tolsero i caschi.

CAPITOLO 8

Ormai deve risultare evidente, da tutto ciò che ho detto, che io non sono uno psicologo, anche se ho letto diversi libri sull’argomento. Mi risulta che una persona può negare recisamente, categoricamente la testimonianza dei suoi sensi, se ciò che gli dicono contraddice violentemente quanto lui crede di sapere. In effetti, ho conosciuti certuni i quali affermano che è questa capacità a salvarci la ragione. Fino a quel momento, avevo dubitato delle loro affermazioni. Adesso non ne sono più tanto sicuro.

Eravamo arrivati dalle precise condizioni di un fondale oceanico nel luogo in cui ci trovavamo in quel momento. Non avevo visto nulla che somigliasse lontanamente a una porta, una valvola, o ad una camera stagna che si aprisse o si chiudesse dietro di noi, e vi assicuro che l’avevo cercata con gli occhi. Perciò, a quanto credevo e sapevo, adesso la mia capsula si trovava in una camera priva d’acqua di mare, ed a una pressione che corrispondeva approssimativamente alla profondità di un miglio.

Avevo visto gli individui che ora si trovavano nella camera intorno a me nuotare fuori, nel mare: erano gli stessi. Li avevo visti di continuo o quasi, mentre mi portavano dentro. Erano anche loro nell’acqua ad alta pressione, come prima. Per il momento dimenticavo la chiarezza con cui avevo potuto vedere i loro visi nell’acqua, all’esterno; ma anche se l’avessi ricordato, probabilmente sul momento non avrei capito.

Li vidi togliersi i caschi, apparentemente nell’acqua ad alta pressione. No, non potevo crederlo. C’era qualcosa che mi sfuggiva, ma non potevo credere che si trattasse di un fatto osservabile. Ero stato sbatacchiato di qua e di là dalla tempesta, in superficie, e certamente mi era sfuggita la tecnica che avevano usato per trovarmi: ma né allora né in seguito ero rimasto privo di sensi. Avevo potuto dormire poco, ma senza dubbio non ero stordito al punto di essermi lasciato sfuggire un avvenimento di rilievo. Dovevo ritenere che le mie osservazioni fossero ragionevolmente complete. E poiché, nonostante tale convinzione, ero evidentemente sfasato rispetto alla realtà, c’era qualcosa che non sapevo. Era venuto il momento di apprendere qualcosa di più.

Non ero troppo preoccupato della mia sorte personale: se avessero avuto intenzione di sbarazzarsi di me, avrebbero potuto farlo prima e senza troppo disturbo: e come ho detto prima, in fondo non potevo credere che mi avrebbero liquidato. Se pensate che questo non quadri con lo stato d’animo in cui mi ero trovato pochi minuti prima, provate a chiederlo voi ad uno psichiatra.

Nella capsula avevo ancora a disposizione aria per un paio di giorni, e presumibilmente prima che finisse i miei nuovi amici avrebbero fatto qualcosa per tirarmi fuori… anche se, pensandovi, non sapevo come. In qualunque modo considerassi la situazione, la prossima mossa spettava a loro. Forse non vi sembrerà consolante, e invece lo era.

A quanto pareva, loro la pensavano allo stesso modo: non che si sentissero consolati, voglio dire… ma sentivano di dover fare qualcosa. Si erano raccolti in gruppo fra la capsula e la porta da cui eravamo entrati, e stavano evidentemente discutendo. Non sentivo le loro voci, e dopo un paio di minuti mi accorsi che in realtà non parlavano: continuavano a gesticolare. Dovevano disporre di un linguaggio dei segni molto perfezionato, pensai. Era logico, se trascorrevano gran parte del tempo nell’acqua, e vi svolgevano gran parte della loro attività lavorativa. Ma non capivo perché se ne servissero adesso, poiché il mio buon senso stentava ad ammettere che fossero ancora in acqua.

Comunque, dopo pochi minuti sembrò che si fossero messi d’accordo, e due di loro se ne andarono a nuoto — sì, a nuoto — giù per uno dei pozzi più piccoli.

Poi pensai che, anche se non potevano parlare, in quelle circostanze, almeno potevano udire.

Perciò provai a bussare sulla capsula per attirare la loro attenzione… delicatamente, data la mia precedente esperienza. Era chiaro che potevano sentire, anche se come previsto faticarono a identificare la fonte del suono ed impiegarono qualche minuto per capire che il responsabile ero io. Allora arrivarono a nuoto e si raccolsero intorno alla capsula, sbirciando attraverso gli oblò. Riaccesi le luci interne. Nessuno di loro si mostrò sorpreso nel vedermi, sebbene continuasse un’animata conversazione a gesti.

Provai a urlare. Fu una faccenda spiacevole per le mie orecchie, poiché quasi tutte le onde sonore echeggiarono contro le pareti della capsula, ma una parte, almeno, doveva passare. Evidentemente passò: molti di loro scossero il capo, per farmi sapere che non riuscivano a comprendermi. Poiché fino ad ora non avevo usato neppure una parola, la cosa non era sorprendente. Cercai di dir loro chi ero — senza usare il mio nome, naturalmente — in ognuna delle tre lingue che dovrei conoscere correntemente. Poi tentai di fare altrettanto in un paio d’altre che non pretendo di sapere bene. Ottenni soltanto altre scrollate di capo, e due o tre si allontanarono a nuoto, forse considerandomi un caso disperato. Nessuno fece un tentativo di comunicare con me, a segni od a suoni.