Nonostante tutta l’energia gratuita che sembrava disponibile, ci volle quasi mezz’ora per vuotare la sala. Il livello del liquido calò regolarmente. La superficie, quando apparve, si mantenne liscia. Non ci furono fenomeni di ebollizione, né altri comportamenti strani. Come se fosse acqua. Non si preoccuparono di eliminarlo tutto: quando la luce verde lampeggiò, sul pavimento abbastanza irregolare erano rimaste diverse pozze.
Non persi tempo ed aprii la capsula: aspettavo da parecchio quel momento e non vedevo l’ora di uscirne. Per un momento, mi fecero male le orecchie, quando i due emisferi si divisero: le pressioni non erano state perfettamente abbinate, ma la differenza era una cosa da poco. Quando uscii, rallentai i miei movimenti, però. Avevo crampi alle braccia e alle gambe e per qualche istante mi fu quasi impossibile camminare, fosse pure per arrivare fino al tavolo operatorio. Impiegai parecchi minuti a riattivare la circolazione, prima di poter fare un altro passo.
Il tavolo era comodo. Pur di potermi stendere, in quel momento mi sarebbe sembrato comodo anche il pavimento di pietra. Mi fissai alla cintura e al petto l’ampia cinghia a rete, e poi, naturalmente, mi accorsi che non potevo arrivare a maneggiare quelle per le gambe. Slacciai la prima cinghia, e tornai ad allacciarla dopo aver sistemato le gambe, e finalmente fui pronto per premere il pulsante del segnale.
Come promesso, una delle mani meccaniche si protese prontamente verso di me, porgendomi un bicchiere con una cannuccia flessibile perché potessi bere stando sdraiato. Seguii gli ordini, e questo è tutto ciò che ricordo dell’intero procedimento.
CAPITOLO 12
Mi svegliai con la testa abbastanza limpida. Ero disteso su una branda, in una stanzetta dove c’erano altri due letti e poco altro. Non c’era nessuno.
Mi avevano tolto gli abiti, ma li avevano ripiegati e deposti in una sorta di incrocio fra un cesto per la biancheria e uno schedario, vicino alla testata del letto. Un altro ricettacolo conteneva un paio di calzoni come quelli che avevo visto addosso a molti uomini intorno alla mia capsula. Dopo un istante di riflessione, li infilai: gli altri miei indumenti non erano fatti per nuotare. Scesi dalla branda, in piedi sul pavimento, sebbene mi sentissi la testa un po’ strana.
Pensai che non potevo sentire un peso sufficiente per permettermi di stare ritto, date le circostanze; ero presumibilmente immerso in un liquido più denso dell’acqua, e quindi più del mio corpo. Mi passò per la mente un’idea; frugai nelle tasche dei miei vecchi indumenti, trovai un coltello a serramanico e lo lasciai andare.
E difatti, cadde passando davanti alla mia faccia. Io ero in piedi sul soffitto, dov’erano sistemate anche le brande.
Provai a seguire a nuoto il coltello, che era andato a fermarsi sul pavimento-soffitto, una cinquantina di centimetri al di fuori della mia portata. Fu un grosso sforzo, ma non impossibile. Adesso capivo perché tutti quelli che avevo visto là sotto portavano le cinture zavorrate. Comunque, non ne vidi nessuna, in giro; per il momento, se volevo spostarmi dovevo camminare. Prometteva di essere una faccenda abbastanza scomoda, poiché il liquido era abbastanza viscoso, sebbene meno dell’acqua. Inoltre, la struttura architettonica non era stata progettata per i pedoni; una delle porte d’accesso alla stanza era situata in una parete ed era facilmente accessibile, ma l’altra era nel pavimento… cioè, il pavimento nella cui direzione era rivolta la mia testa e su cui era andato a finire il mio coltello a serramanico. Date le circostanze, decisi di aspettare che Bert o qualcun altro venisse a portarmi zavorra e pinne. La decisione fu facilitata dal fatto che non mi sentivo ancora a posto, a parte la differenza di opinioni tra i miei occhi ed i miei canali semicircolari circa l’ubicazione dell’alto e del basso. Anzi, i canali sembravano incapaci di decidere, e all’improvviso mi resi conto che anch’essi dovevano aver subito un intervento chirurgico. Non potevano essere stati lasciati così, pieni d’aria… o sì? Quanto era forte l’osso, e come proteggeva i canali, tra l’altro?
Tastandomi il collo e intorno alle orecchie trovai parecchi punti dove la pelle era ricoperta dalla plastica liscia delle bende adesive, ma questo non dimostrava gran che. Era sempre stata evidente la necessità di una modificazione delle orecchie.
Non sentivo il desiderio di respirare; dovevano avermi fatto ingerire un quantitativo di sostanza generatrice d’ossigeno, nel corso del procedimento. Mi chiesi per quanto tempo sarebbe durata quella riserva.
All’improvviso mi resi conto di essere completamente in balia di chiunque intendesse esercitare una supremazia su di me, perché non sapevo dove e come procurarmi la sostanza necessaria. Avrei dovuto discuterne con Bert, e al più presto.
Provai a respirare, a forza. Mi accorsi che riuscivo soltanto ad espellere lentamente il liquido dai polmoni, e a riassorbirlo altrettanto lentamente: ma era doloroso, e mi dava le vertigini, assai più che trovarmi simultaneamente a testa in giù ed a piedi in giù. Il liquido mi entrò nella trachea: lo sentii, ma non provai la tendenza a tossire. Sono ancora convinto che quella fosse stata una delle parti più difficili della procedura di conversione, considerando l’attività muscolare e nervosa che il tossire comporta.
La presenza del liquido nella mia trachea, sebbene prevista, sollevava un’altra questione. Non potevo parlare, di sicuro, e non conoscevo il linguaggio dei segni che lì era d’uso corrente… non sapevo neppure su quale lingua parlata fosse basato. Avrei avuto il mio da fare, per comunicare con gli abitanti locali. Forse sarebbe stato meglio trovare il modo di superare quella difficoltà; se avessi saputo da Bert quel che mi interessava, le lezioni di lingua sarebbero state uno spreco di tempo.
Comunque, potevo udire. I suoni erano abbastanza strani, ma uno di essi poteva essere il ronzio di motori o generatori ad alta velocità. C’erano sibili, tonfi, fischi… quasi tutto, insomma: ma non ce n’era uno che fosse esattamente familiare, e una particolare classe di rumori era del tutto assente. Mancava il brusio delle voci che permeava tutti gli altri luoghi abitati della Terra.
Passò quasi un’ora, secondo il mio orologio, prima che comparisse qualcuno (l’orologio era un congegno a stato solido e ad energia radioattiva, e non era stato creato per resistere alle profondità dei fondali oceanici, ma aveva resistito benissimo). Trascorsi gran parte di quell’intervallo maledicendo me stesso: non per essermi sottoposto alla metamorfosi, ma per non avere approfittato del tempo tra la decisione e l’azione estorcendo a Bert altre informazioni.
La nuova arrivata era giovane e molto decorativa… ma non m’innamorai di lei. La reazione fu reciproca. Mi accennò di tornare alla branda ed esaminò le mie fasciature con aria esperta ed efficiente.
Quando ebbe finito, cercai di richiamare la sua attenzione sulla mancanza di zavorra. Forse capì, perché annuì cortesemente dopo che io ebbi finito di gesticolare, ma se ne andò senza aver fatto qualcosa di costruttivo al riguardo. Sperai che andasse a chiamare Bert.
Non so se lo facesse o no; comunque, il secondo ad entrare fu proprio Bert. Non aveva portato la zavorra, ma aveva la tavoletta per scrivere. Meglio ancora. La presi e mi misi all’opera.