Come ho detto prima, ritengo di essere un discreto ingegnere, e sono in grado di svolgere un’indagine apprezzabile, quando si tratta di un compito essenzialmente tecnico, come scoprire dove va a finire l’energia. Ma non sono un ideatore di trame, nel senso antiquato del termine: e per un po’ mi trovai completamente disorientato di fronte al problema. A impedirmi così a lungo di trovare un’idea efficiente, suppongo, fu una naturale riluttanza a dire a Marie qualcosa di diverso dalla verità, ed una riluttanza ancora più grande di fronte al pensiero di darle un dispiacere.
Non so che cosa riuscì a sbloccarmi. All’improvviso, comunque, mi apparve chiaro come il sole che, se Marie era decisa a restare fino a quando credeva che Joey si trovasse lì, e vivo, presumibilmente se ne sarebbe andata, se si fosse convinta che lui era morto lì.
L’idea non mi piaceva. Non mi piace mentire, soprattutto a coloro che si fidano di me, e in particolare a Marie. Avevo vissuto la fase normale dell’infanzia, quando mentire sembrava il modo più facile per togliersi dai guai: ma ottimi insegnanti e genitori comprensivi, con l’aiuto di un amico intimo con un ottimo gancio destro e sei chili addosso più di me, mi avevano aiutato a superare quella fase. In quella situazione, dovetti ripetermi più volte che lo facevo per la salvezza di Marie, prima di decidermi.
Preferisco non discutere come mi convinsi che valesse anche la pena di causarle un simile dolore. Di una cosa ero certo: il piano era così semplice che mi stupì che Bert non ci avesse mai pensato. Dopotutto, sembrava che non avesse i miei pregiudizi nei confronti delle menzogne.
CAPITOLO 19
Glielo proposi alla prima occasione, e anche lui non riuscì a capire come mai non gli fosse venuto in mente. Mi approvò vivamente, e si complimentò con me con tutta l’eloquenza concessagli da un inizio di crampo alle dita. Poi cominciò a darsi da fare.
Il piano era abbastanza semplice. Il sommergibile di Joey, naturalmente, era ancora lì. Lo avremmo sfasciato, avremmo detto a Marie che avevamo trovato il relitto, e se fosse stato necessario glielo avremmo mostrato. Avremmo fatto in modo che rimanessero intatti il numero di registrazione ed altri segni d’identificazione. Dopo esserci messi d’accordo, andammo al molo dov’era attraccato il sommergibile. Avremmo potuto metterci al lavoro appena arrivati: ma durante la nuotata di mezz’ora avevamo avuto il tempo di pensare ai dettagli. Quando riprendemmo a comunicare, i particolari non coincidevano, e impiegammo quasi mezz’ora per riconciliarli. Con questo, il lavoro vero e proprio e la ricerca, da parte di Bert, di qualcuno che ci aiutasse a trasportare il sommergibile, passarono più di sei ore prima che fossimo veramente pronti a trasferire fuori il mezzo.
Non potevamo farlo funzionare con il suo motore, anche se questo sarebbe stato possibile. Dopo la metamorfosi di Joey, era stato riempito del liquido ambiente, alla pressione locale. Riuscimmo a lavorare senza difficoltà sui comandi interni. Pensammo di portarlo alla «sala operatoria» e di collegarlo con il portello di trasferimento, per riportare sala e sommergibile alla pressione di superficie, ma poi mi venne in mente un piano più facile.
Come tutte le macchine da lavoro di profondità, il sommergibile di Joey aveva grossi serbatoi per il sollevamento e la zavorra. I primi funzionavano ancora, perché non avevano perduto molto liquido, a giudicare dalla galleggiabilità dell’apparecchio. I serbatoi della zavorra, naturalmente, adesso erano pieni del liquido che formava il nostro ambiente normale. Erano disposti in due serie principali che si estendevano per quasi tutta la lunghezza dello scafo, parallelamente allo scafo; ogni serie era divisa in quattro cellette per mezzo di paratie munite di valvole e di pompe.
Aprimmo tutte le valvole. Poi spezzammo i sigilli dei portelli di manutenzione senza aprirli completamente, in modo che il fluido potesse filtrare tra l’interno dello scafo principale e i serbatoi della zavorra. Entro un po’ di tempo, le pompe avrebbero svuotato l’interno ed i serbatoi.
Finalmente, provvedemmo a sfasciare lo scafo. Avevo dato per certo che avremmo potuto usare i normali esplosivi, dimenticando l’effetto che ha il suono su una persona immersa in un liquido. Non è che non mi volessero consegnare gli esplosivi: lì non ce n’erano mai stati, semplicemente.
Finalmente pensammo di risolvere il problema aprendo le lastre d’ispezione e togliendo parecchi dei supporti imbullonati, quelli che dovevano essere mobili, per provvedere alla manutenzione. Sembrava certo che, se avessimo svuotato lo scafo, si sarebbe schiacciato inevitabilmente.
Perdemmo parecchio tempo tentando di improvvisare qualcosa che mettesse in moto le pompe della zavorra, con un congegno ad orologeria oppure dall’esterno. Finalmente, a qualcuno (non a me), venne in mente che niente ci impediva di attivarle dall’interno e di uscir fuori, chiudendoci il portello alle spalle. La pressione non avrebbe cominciato a scendere, fino a quando lo scafo non fosse stato isolato dall’oceano.
Sembrò che questo bastasse a concludere il lavoro. Il sommergibile era già quasi in equilibrio di peso rispetto alla zavorra esterna, perciò lo rimorchiammo e ci avviammo a nuoto verso l’entrata più vicina. Eravamo in dieci, e il carico non era eccessivo. Lo arrestammo sotto l’apertura del tetto, lo spingemmo verso l’alto fino a quando arrivò al punto di contatto tra i due liquidi, e lo lasciammo lì, per indossare le mute.
Non mi ero ancora abituato. Non avevo avuto occasione di chiedere a cosa serviva la piccola bombola sulla schiena… la mia teoria, come forse ricorderete, non costituiva una spiegazione valida. E in quel momento non avevo la possibilità di chiederlo. Bert mi aiutò a sistemare tutto a dovere, anche se non sapevo sempre con esattezza quello che stava facendo. In tre o quattro minuti cominciammo ad espellere la zavorra esterna, e il sommergibile entrò in acqua per l’ultima volta.
Gli lasciammo un po’ di galleggiamento negativo, e alcuni di noi camminarono sorreggendolo, mentre gli altri lo spingevano a nuoto. Bert ed io non avevamo fatto piani precisi circa il punto in cui si doveva inscenare il naufragio: evidentemente, non doveva essere troppo vicino ad un’entrata, altrimenti sarebbe stato impossibile far credere che non l’avessero trovato prima. D’altra parte, non sarebbe stato possibile portarlo troppo lontano. Dopo un’ora di viaggio, lasciammo che lo scafo si posasse sul fondo.
Personalmente, non sarei riuscito a trovare la strada del ritorno fino all’ingresso da cui eravamo passati, e sarebbe stato un colpo di fortuna se ne avessi trovato uno qualunque. Bert e gli altri però non sembravano preoccupati. Pensai che conoscessero bene la zona, o che disponessero di un sistema di orientamento di cui non sapevo ancora nulla. L’unica luce era quella delle nostre lampade, la cui radiazione formava una piccola cupola luminescente nella tenebra immensa del Pacifico. Eravamo lontanissimi dal tendone, come continuo a chiamare l’area coltivata. Non sapevo neppure in quale direzione si trovasse, e anche se l’avessi saputo non mi sarebbe servito a nulla, dato che non avevo una bussola.
Bert mi indicò a gesti di accostarmi al portello stagno del sommergibile. L’aprii ed entrai. In un certo senso, mi dispiaceva moltissimo: ma l’idea mi sembrava ancora buona.
Una volta entrato, mi sbrigai in fretta: dovevo soltanto fare scattare due interruttori. Mi richiusi il portello alle spalle, e raggiunsi gli altri.
Avevamo ricaricato le batterie del sommergibile, e non c’era da temere che non ci fosse energia sufficiente per svuotarlo. Ero molto fiero di aver ricordato quel particolare: i serbatoi erano grandi, e avrebbero causato un enorme lavoro per le pompe. Tuttavia, avevo appena raggiunto il gruppo quando fummo costretti a ricordare qualcosa cui non avevamo pensato né io né Bert, qualcosa per cui non potevamo trovare una giustificazione.