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I due uomini non vennero colpiti, ma la cosa li sbalordì. Quello armato di rete stava toccando la capsula, e forse pensò di essere stato lui, involontariamente, a far scattare le molle. Comunque, nessuno dei due mostrò di ritenere che fosse opportuno affrettarsi, come avrebbero senza dubbio fatto se avessero sospettato che lì dentro c’era un uomo. Continuarono semplicemente a fissare il congegno di sollevamento come avevano fatto con l’altro relitto: adesso che le gambe metalliche erano estroflesse di appigli ce n’erano in abbondanza, e sarebbe stato difficile o addirittura impossibile avvolgere la rete intorno alla capsula. Tutto andava per il meglio.

Usarono la stessa tecnica dell’altra volta. Pensai che il cilindro contenesse un generatore chimico di gas, considerando la pressione in cui doveva gonfiarsi il pallone. Ma fu solo un pensiero fuggevole. Era molto più interessante osservare i due sommozzatori che mi spingevano verso il bordo del tetto, prima ancora che la mia capsula si fosse completamente sollevata. La prospettiva era abbastanza favorevole: due soli uomini, la roccia nuda ormai molto vicina… No, non essere così precipitoso: forse ti spingeranno proprio verso l’entrata che ci tieni tanto a scoprire. Aspetta ancora, ragazzo mio. Scostai le dita dal quadro dei comandi, e le intrecciai, per maggiore sicurezza.

Esattamente come era accaduto alla Pugnose, la capsula venne rimossa dal tendone e poi spinta parallelamente al bordo. Il movimento era lento: sebbene il carico non avesse peso, c’era da vincere la resistenza dell’acqua. Il tragitto durò più di quindici minuti. Io continuavo a guardare, nella speranza di scorgere l’ingresso. Mi aspettavo una sorta di apertura nel telone, ma poi vidi che si trattava di qualcosa di diverso.

Dopo un quarto d’ora, i miei portatori si allontanarono di nuovo dalle luci, dirigendosi su per il pendio che si trovava alla nostra destra. Dopo circa duecento metri in questa nuova direzione, arrivammo sul ciglio di un’altra conca, in apparenza identica a quella in cui per poco non ero rimasto intrappolato alcune ore prima: ma era più grande. La parte centrale della depressione era illuminata ancora più vivamente del tetto, e l’ingresso era proprio lì.

Non ebbi tempo di guardarlo con molta attenzione: agii troppo in fretta. Scorsi qualcosa che sembrava una sorta di pozzo dalle pareti lisce, del diametro d’una dozzina di metri, con scale a grappe che scendevano tutto intorno al bordo. La luce proveniva in gran parte da un punto del pozzo al di sotto della mia visuale. Tra me e l’apertura c’era una dozzina o più di figure che nuotavano: e quando le vidi mi decisi ad agire. Se mi fossi trovato circondato da un branco di sommozzatori, avrei avuto ben poche possibilità di sganciare un transponder senza che quelli se ne accorgessero; e senza perdere altro tempo a riflettere, sganciai contemporaneamente la zavorra ed uno dei rivelatori. Mi resi conto immediatamente che poteva essere un errore, perché ciascuna di quelle lastre di piombo era abbastanza pesante, anche sott’acqua, per fracassare lo strumento, e quando sentii la capsula sollevarsi di colpo sganciai un altro transponder. Era possibile che i miei accompagnatori si lasciassero distrarre dalla zavorra… anzi, quella possibilità era migliore di quanto pensassi, come scoprii in seguito.

Udii il piombo urtare contro la roccia. Evidentemente, l’udirono anche i sommozzatori intorno al pozzo. Impiegarono alcuni secondi per individuare l’origine del rumore. Un uomo giudica la direzione di un suono, in parte, dalle differenze del tempo con cui l’onda sonora gli arriva alle due orecchie: e data la velocità elevata del suono nell’acqua, il fatto che la vibrazione veniva trasmessa anche dalla roccia, e i caschi che tutti portavano, era impossibile, per loro, farsi un’idea chiara dell’origine del rumore. Quando si avviarono nella mia direzione, lo fecero solo perché uno dei due che mi stavano trasportando fece brillare una torcia elettrica per chiamarli.

I due erano rimasti aggrappati alle mie gambe… alle gambe della capsula, dovrei dire. Naturalmente, non potevano trattenermi. Occorre ben altro che due corpi umani per rimpiazzare parecchie tonnellate di piombo. Tuttavia restavano con me, e guidavano gli altri.

All’inizio non me ne preoccupai, poiché non erano abbastanza numerosi per trattenermi, e se anche lo fossero stati, non avrebbero trovato lo spazio per aggrapparsi tutti. Il mio unico vero motivo di preoccupazione era la possibilità che nei dintorni ci fossero sommergibili da lavoro muniti di grappe. Tuttavia, sarei stato al sicuro anche in questo caso, purché avessero tardato a comparire ancora per qualche minuto. Avrebbero dovuto darmi la caccia con il sonar, quando io fossi stato fuori di vista, e cominciavo ad essere certo che quelli non ci tenevano affatto ad irradiare onde sonar. Giungono troppo lontano, e si riconoscono troppo facilmente. Non sapevo ancora cosa stesse combinando quella gente, ma l’attività aveva tanti aspetti illegali da farmi pensare che quelli attribuissero una importanza enorme alla segretezza.

Tra poco, quelli che stavano aggrappati alla mia capsula sarebbero stati costretti a mollare la presa. Non esiste un respiratore subacqueo che consenta ad un uomo di risalire alla velocità di un metro al secondo per più di qualche decina di metri, senza incappare in un’embolia. Non sapevo che razza di miscuglio di gas respirassero quei tali: ma le leggi della fisica sono quelle che sono, ed i corpi umani debbono inevitabilmente adeguarvisi.

I sommozzatori più lontani stavano tornando indietro, quando mi passò per la mente questo pensiero: li potevo vedere contro lo sfondo vago del pozzo illuminato. Potevo vedere anche, non molto bene, la luce che uno dei miei passeggeri abusivi stava facendo lampeggiare nella loro direzione. Sembrava che avesse ancora qualche speranza. Forse c’era davvero un sommergibile, nelle vicinanze, e lui cercava di restarmi addosso abbastanza a lungo per guidarlo. Comunque, a meno che comparisse molto presto, l’uomo avrebbe perduto la partita, e ci avrebbe anche lasciato la pelle.

Vidi un altro sommozzatore, vicinissimo, tra me e la luce: il mio secondo passeggero doveva essersi staccato. E il primo, quando avrebbe lasciato la presa? La sua lampada brillava ancora, ma ormai poteva servire a ben poco. Scorgevo a malapena il pozzo, e senza dubbio nessuno, laggiù, era in grado di vedere quel minuscolo barlume. Evidentemente se ne rese conto anche l’uomo, perché dopo pochi altri secondi la luce si spense. Mi aspettavo di vederlo andarsene, come aveva fatto il suo compagno, poiché era inutile che mi restasse attaccato, ma lui non doveva pensarla così. Aveva altre idee: ed una, dal suo punto di vista, era ottima. A me non piacque molto.

Il materiale con cui vengono fabbricate le capsule a pressione non è metallo, e differisce parecchio da tutti i metalli per le sue proprietà elastiche. Ma come i metalli, se lo percuoti produce un rumore. Non sapevo con che cosa avesse cominciato a battere il mio passeggero: ma di rumore ne faceva. Io che stavo dentro la capsula posso garantirlo. Un bel ritmo costante, un colpo al secondo, che risuonava sulla capsula, e devastava le mie orecchie ed i miei piani. L’uomo non aveva bisogno di luce: qualunque sommergibile da lavoro poteva puntare verso quel rumore, anche da parecchie miglia di distanza, se disponeva di una strumentazione appena appena decente.

E a me non veniva in mente nessun possibile sistema per farlo smettere.

CAPITOLO 5

Potevo provare ad azionare le gambe metalliche, naturalmente. E provai. Era così buio, adesso che la luce irradiata dal pozzo d’entrata e dal telone era ridotta a un remoto barlume, che forse l’uomo non si accorse neppure di quel che stavo facendo. Se fosse stato aggrappato ad una delle gambe, sarebbe rimasto sconcertato, quando io la facevo rientrare, e magari si sarebbe preso una grossa botta quando la facevo estroflettere di nuovo: ma a quanto pareva non accadeva niente del genere. Azionai parecchie volte tutte le gambe senza ottenere il minimo cambiamento nel ritmo dei rumori.