Isaac Asimov
Neanche gli dei
UNA DEDICA UN PO’ LUNGA
Se non contiamo Viaggio allucinante, che era la stesura sotto forma di romanzo di una sceneggiatura altrui, fanno ormai dieci anni e mezzo che non scrivo un romanzo di fantascienza. Non perché io abbia smesso di scrivere, dal momento che in questi anni ho scritto più che mai. Semplicemente, non ho scritto romanzi di fantascienza.
Poi, un giorno, il 24 gennaio 1971, a una convention di fantascienza che si teneva a New York, mi trovai tra il pubblico che ascoltava Robert Silverberg e Lester del Rey impegnati in un dibattito a due di argomento fantascientifico. Nel corso della discussione Bob, dovendo riferirsi all’isotopo di un elemento chimico — un qualunque isotopo — per chiarire il suo punto di vista, dopo un attimo di esitazione disse: “Plutonio 186”.
Naturalmente, al termine del dibattito mi avvicinai a Bob per dirgli (con parecchio compiacimento) che non esisteva, e non poteva esistere, qualcosa che si chiamasse plutonio 186. Per niente abbattuto da quella dimostrazione della sua ignoranza scientifica, Bob replicò, testardo: “E allora?”.
“Allora ecco qua” dissi io. “Solo per dimostrarti la portata della tua ingenuità, scriverò una storia sul plutonio 186.”
Non era affatto facile come l’avevo fatto sembrare con la mia magniloquenza. Dovevo immaginare qualcosa che rendesse possibile (o quanto meno sembrasse rendere possibile) l’esistenza di un isotopo impossibile, poi immaginare le complicazioni che ne derivavano e, infine, la soluzione di quelle complicazioni.
Dopo qualche tempo ero riuscito a escogitare abbastanza da cominciare.
Così, mi sedetti alla scrivania e mi misi a scrivere, e successe qualcosa che di solito non mi succede… La storia mi prese la mano e andò avanti per conto suo. All’inizio non avevo idea che avrei scritto un romanzo, ma è quello che ne è risultato.
Pertanto, per avermi inconsapevolmente fornito l’ispirazione per un romanzo che io non sapevo (all’origine) di dover scrivere, dedico questo libro:
Ah, a proposito, la storia comincia con il capitolo 6. Non è un errore. Ho i miei buoni motivi. Quindi, basta che la leggiate e, mi auguro, la gustiate.
PARTE PRIMA
Contro la stupidità…
6
— Inutile! — esclamò con asprezza Lamont. — Non ho ottenuto niente. — Aveva un’espressione imbronciata che s’intonava con gli occhi infossati e il lungo mento un po’ asimmetrico. L’espressione imbronciata era presente anche nei suoi momenti migliori, e quello non era uno dei suoi momenti migliori. Il suo secondo colloquio ufficiale con Hallam era stato un fiasco più grosso del primo.
— Non fare il tragico — disse Myron Bronowski, placido.
— Non ti aspettavi niente. Me lo hai anche detto. — Stava gettando in aria delle arachidi che poi acchiappava al volo con la bocca dalle labbra tumide. Non ne sbagliava una. Non era molto alto né molto magro.
— Non è che mi faccia piacere. Ma hai ragione, non importa. Ci sono altre cose che posso fare e ho intenzione di farle e, in più, dipendo da te. Se solo tu riuscissi a scoprire…
— Non finire la frase, Pete. La so a memoria. Tutto quello che devo fare è decifrare il pensiero di un’intelligenza non umana.
— Un’intelligenza migliore di quella umana. Gli esseri del para-universo stanno tentando di farsi capire.
— Può darsi — sospirò Bronowski — ma tentano di farlo tramite la mia intelligenza che è migliore di quella umana, come qualche volta mi capita di pensare, ma non di molto. Qualche volta, la notte, me ne sto sveglio al buio a chiedermi se tra intelligenze diverse la comunicazione sia possibile; oppure, se ho avuto una giornata particolarmente storta, se la frase “intelligenze diverse” abbia addirittura un significato.
— Ce l’ha — disse con impeto Lamont, mentre le mani nelle tasche del camice da laboratorio gli si stringevano a pugno. — Significa Hallam e me. — Significa quell’eroe fasullo, il dottor Frederick Hallam, e me. Noi siamo due intelligenze diverse, perché quando io gli parlo lui non capisce. La sua faccia idiota diventa più rossa, gli si strabuzzano gli occhi e gli si turano le orecchie. Direi persino che il cervello gli smette di funzionare, se avessi la prova che in qualche altro momento funziona.
— Che modo di parlare del Padre della Pompa Elettronica — mormorò Bronowski.
— È proprio questo. Il riverito Padre della Pompa Elettronica. Un bastardo, se mai ne è nato uno. Il suo contributo è stato irrilevante. Io lo so.
— Anch’io lo so. Me lo hai detto un sacco di volte. — E Bronowski lanciò in aria un’altra arachide. Non la mancò.
1
Era successo un quarto di secolo prima. Frederick Hallam era un radiochimico, con la stampa della tesi di laurea ancora umida e nessun segnale premonitore di essere destinato a sovvertire il mondo.
Quello che diede l’avvio al sovvertimento del mondo fu il fatto che una polverosa bottiglia da reagente con l’etichetta “Tungsteno-Metallo” si trovava sulla sua scrivania. Quella roba non era sua, e lui non l’aveva mai adoperata. Era l’eredità di un lontano giorno in cui uno dei precedenti occupanti di quello stesso ufficio aveva avuto bisogno di tungsteno per un motivo ormai sepolto nell’oblio. E non era nemmeno più tungsteno: erano granuli di un qualcosa molto ossidato, grigio e pieno di polvere. Completamente inutili.
E un giorno Hallam entrò nel laboratorio (ecco, per la precisione era il 3 ottobre 2070), si mise al lavoro, s’interruppe poco prima delle dieci del mattino, fissò attonito la bottiglia, poi la prese in mano. Era coperta di polvere come sempre, con la sua etichetta sbiadita, ma lui gridò: — Perdio! Chi ha pasticciato con questa roba, maledetto lui?
Questa, per lo meno, fu la versione di Denison, che aveva udito per caso l’esclamazione, come la raccontò a Lamont una generazione più tardi. Il resoconto ufficiale della scoperta, come lo riportano i libri, non cita la frase. Se ne ricava l’impressione di un chimico dalla vista acuta che si accorse del cambiamento e ne trasse seduta stante profonde deduzioni.
Non avvenne così. Hallam non sapeva cosa farsene del tungsteno: per lui non aveva il minimo valore e qualunque manomissione non avrebbe avuto importanza. Però, non sopportava che frugassero nella sua scrivania (a molti capita la stessa cosa) e sospettava che gli altri fossero tanto maliziosi da averlo fatto solo per dispetto.
Sul momento nessuno ammise di avere a che fare con la faccenda. Benjamin Allan Denison, colui che aveva sentito per caso la prima osservazione, aveva l’ufficio proprio dirimpetto, dall’altra parte del corridoio, e ambedue le porte erano aperte. Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo accusatore di Hallam.
Hallam non gli piaceva molto (non piaceva molto a nessuno) e per di più la notte aveva dormito male. Perciò, come successe in realtà e come in seguito lui stesso ricordò, fu piuttosto contento di avere sottomano qualcuno su cui sfogare il cattivo umore, e Hallam era il candidato ideale.
Quando Hallam gli mise la bottiglia sotto il naso, Denison la scostò con la mano, disgustato. — Perché, maledizione, dovrebbe interessare a me il tuo tungsteno? — sbottò. — E perché dovrebbe interessare a qualcuno? Se guardi bene la bottiglia, vedrai che quella roba non viene aperta da vent’anni, e se non ci avessi messo sopra le tue luride zampe, avresti visto anche tu che nessuno te l’aveva toccata.