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— Perché? — Dua si era girata, con un moto di ribellione, e i suoi vaghi contorni erano diventati ancora più indistinti, quasi tentasse di dissolversi. Lei voleva dissolversi del tutto, infatti, ma naturalmente non poteva. Dopo un po’ quello stato la rendeva tutta tesa e indolenzita, e così era tornata a condensarsi. Il suo Paterno non si era preso nemmeno la briga di rimproverarla o di dirle che sarebbe stata una vergogna se qualcuno l’avesse vista così estesa. — A loro non importerà — disse allora, per pentirsene subito dopo, perché sapeva che il Paterno ne avrebbe sofferto.

Lui li chiamava ancora “piccolo sinistride” e “piccolo destride”, anche se il piccolo sinistride non faceva altro che studiare e il piccolo destride parlava già di formarsi una triade. Dua era la sola dei tre che ancora provasse… Be’, in fondo lei era la più giovane. Le Emotive erano sempre le più gióvani, e con loro era diverso.

Il suo Paterno si era limitato a dire: — Glielo dirai comunque. — Ed erano rimasti là a fissarsi, tutti e due.

Lei non aveva voglia di dirlo agli altri. Non c’era più confidenza tra loro. Le cose erano state differenti quando tutti erano piccoli. Allora erano sempre insieme, indivisibili: fratello sinistride, fratello destride e sorella mediana. Erano tutti e tre sottilissimi, trasparenti e filiformi, si arrotolavano l’uno dentro l’altro e si fondevano insieme e si nascondevano nei muri.

Nessuno si preoccupava se loro si comportavano così, quando erano piccoli. Nessuno degli adulti, cioè. Ma poi i fratelli erano cresciuti, erano diventati più densi e tanto seri, e si erano allontanati, e quando lei se n’era lamentata con il Paterno, lui aveva risposto: — Ormai sei troppo grande per rarefarti, Dua.

Lei aveva fatto finta di niente, ma quando aveva cercato di giocare ancora, il fratello sinistride le aveva detto: — Non starmi addosso, non ho tempo da perdere con te. — E il fratello destride aveva cominciato a rimanere quasi sempre denso, ed era diventato cupo e silenzioso. Lei, allora, non aveva capito il perché e Papà non era stato capace di spiegarglielo. Le aveva ripetuto, di tanto in tanto, come se fosse una lezione imparata molto tempo prima: — I sinistridi sono Razionali, Dua, e i destridi sono Paterni. E crescono a modo loro.

Quel loro modo a lei non era piaciuto. I suoi fratelli non erano più bambini, mentre lei lo era ancora, perciò si era aggregata alle altre Emotive. E tutte avevano da fare le stesse lamentele contro i fratelli. Parlavano tutte di quando avrebbero formato una triade. Si estendevano tutte al sole per mangiare. Crescevano tutte e tutte allo stesso modo, e ogni giorno dicevano sempre le stesse cose.

Lei aveva finito col non sopportarle più e, ogni volta che aveva potuto, se n’era stata per conto suo, tanto che loro l’avevano lasciata perdere, chiamandola “Emo-Sinistride”. (Era da un pezzo, ormai, che nessuno la chiamava più così, ma Dua non poteva pensare a quell’epiteto senza ricordare le vocette canzonatorie che glielo gridavano dietro, con insistenza maliziosa, sapendo di farla soffrire.)

Ma il suo Paterno era sempre rimasto affezionato a lei, anche se doveva aver capito che tutte le altre la prendevano in giro. Anzi aveva cercato, nel suo modo goffo, di difenderla dalle altre. Qualche volta l’aveva persino seguita in superficie, e sì che non gli piaceva per niente andarci, solo per accertarsi che non le succedesse niente.

Una volta si era imbattuta in lui mentre era in compagnia di un Duro. Non era facile per i Paterni parlare a un Duro, e lei, sebbene ancora bambina, lo sapeva. I Duri parlavano solo con i Razionali.

Si era spaventata e si era rarefatta per scappare via, ma aveva fatto in tempo a sentire il Paterno che diceva: — Mi prendo cura di lei, Duro signore.

Possibile che il Duro avesse chiesto proprio di lei? Forse voleva sapere della sua stranezza? Ma il Paterno non aveva parlato in tono di scusa. Aveva solo detto al Duro quanto lei gli stesse a cuore, e per questo Dua aveva provato un oscuro senso d’orgoglio.

Ma poi era venuto il momento in cui il Paterno stava per lasciarla e tutt’a un tratto l’indipendenza che lei tanto agognava aveva perso tutto il suo fascino, trasformandosi in un dirupo aguzzo di solitudine. Gli aveva chiesto: — Ma perché devi trapassare?

— Devo, mia piccola cara mediana.

Doveva. Lei lo sapeva. Tutti, prima o poi, dovevano trapassare. Anche per lei sarebbe giunto il giorno in cui avrebbe detto, con un sospiro: “Devo”.

— Ma come fai a sapere quando è il momento di trapassare? Se puoi sceglierlo, perché non scegli un altro momento e non resti ancora un poco?

Lui aveva risposto: — Il tuo padre sinistride ha deciso. La triade deve fare quello che dice lui.

— Perché devi fare quello che dice lui? — Vedeva pochissimo sia il suo padre sinistride che la sua mamma mediana. Per lei non contavano niente. Contava solo suo padre destride, il Paterno, il suo papà, che stava adesso davanti a lei, basso, tozzo e con le superna piane. Non era tutto curve lisce come un Razionale né aveva la forma fluttuante e irregolare di un’Emotiva, e lei sapeva sempre in anticipo quello che stava per dirle. Quasi sempre.

Era sicura che adesso le avrebbe detto: — Non posso spiegarlo a una piccola Emotiva.

Ed era stato quello che le aveva detto.

In un impeto di sofferenza Dua aveva allora esclamato: — Mi mancherai molto! So che credi che non ti ascolto e non ti voglio bene, perché mi dici sempre che non devo fare questo e quello! Ma preferisco non volerti bene perché mi dici sempre le stesse cose noiose, piuttosto che non averti più vicino a dirmi di non fare questo e quello!

E il Papà era rimasto lì, fermo e silenzioso. Non poteva fare niente per calmare quello sfogo tranne che avvicinarsi e sporgere una mano. Ed era quello che aveva fatto. Gli era costato uno sforzo visibile, ma aveva allungato una mano tremante, i cui contorni erano persino diventati lievemente vaghi.

— Oh, papà! — aveva esclamato Dua, e a sua volta aveva esteso la mano sopra quella di lui, avvolgendola, così che era parsa annebbiata e luccicante attraverso la sostanza di lei. Era stata però molto attenta a non toccarla per non mettere troppo in imbarazzo il Paterno.

Poi, ritraendo la mano in modo che quella di lei si era ritrovata ad avvolgere il nulla, lui aveva detto: — Ricorda i Duri, Dua. Ti aiuteranno. Io… io devo andare adesso.

E si era allontanato, e lei non lo aveva rivisto mai più.

Adesso era là seduta nel tramonto del Sole con i suoi ricordi, pur sapendo benissimo che di lì a poco Tritt avrebbe cominciato a lamentarsi con petulanza per la sua assenza e a seccare Odeen.

E poi forse Odeen le avrebbe fatto la predica sui suoi doveri.

Lei se ne infischiava.

1b

Odeen era solo moderatamente consapevole del fatto che Dua era fuori, in superficie. Senza nemmeno concentrarsi, poteva valutare in che direzione si trovasse e persino la distanza approssimativa. Se avesse smesso di pensarci, ne avrebbe probabilmente provato dispiacere, perché, da quel senso di reciproca consapevolezza che andava via via affievolendosi col tempo, benché non molto sicuro del motivo, lui ricavava un senso di raggiunta completezza. Era così che si pensava andassero le cose: quello era il segno del progressivo sviluppo del corpo con l’età.

Il senso di reciproca consapevolezza di Tritt, invece, non era diminuito, solo si era sempre più spostato verso i bambini. Quella era chiaramente la linea di sviluppo più utile, ma del resto il ruolo del Paterno era un ruolo semplice, in un certo senso, anche se importante. Il Razionale era molto più complesso e, a quel pensiero, Odeen provò un senso di vuota soddisfazione.

Ovviamente il vero rompicapo era Dua. Era talmente diversa dalle altre Emotive! Il suo comportamento sconcertava e deludeva Tritt, riducendolo a un mutismo persino più accentuato del solito. Sconcertava e deludeva anche Odeen, a volte, ma lui capiva altresì quanto fosse infinita in Dua la capacità di rendere piena e soddisfacente la vita, e gli pareva molto probabile che le due cose fossero collegate. L’occasionale esasperazione che Dua causava con il suo comportamento era più che ripagata dall’intensa felicità che sapeva dare.