Un rossore collerico si diffuse sulla faccia di Hallam, che disse, a denti stretti: — Senti, Denison, qualcuno ne ha cambiato il contenuto. Questo non è il tungsteno.
Denison si concesse un lieve ma percettibile sbuffo di disprezzo. — E tu come fai a saperlo?
La storia è fatta di cose come questa, meschine malignità e stoccate al buio.
Sarebbe stata in ogni caso un’osservazione poco felice. Il curriculum scolastico di Denison, fresco quanto quello di Hallam, era molto più brillante e lui era il nuovo acquisto più promettente del reparto. Hallam lo sapeva e, ciò che era peggio, lo sapeva anche Denison e non ne faceva un segreto. La domanda “E tu come fai a saperlo?”, con la chiara e inequivocabile enfasi sul tu, fornì ampio motivo per tutto quello che avvenne in seguito. Senza l’insinuazione, Hallam non sarebbe mai diventato il più grande e il più riverito scienziato della storia, per dirla con le precise parole che usò Denison più tardi, durante il suo colloquio con Lamont.
Ufficialmente, quella mattina fatale Hallam era entrato nel laboratorio, si era accorto che i granuli grigi e polverosi erano spariti — non era rimasta nemmeno la polvere sulla superficie interna della bottiglia — e che al loro posto c’era del metallo lucido, grigio ferro. Naturalmente aveva indagato…
Ma mettiamo da parte la versione ufficiale. L’origine di tutto fu Denison. Se si fosse limitato a un semplice no o a un’alzata di spalle, le probabilità dicono che Hallam avrebbe fatto la sua domanda agli altri, poi alla fine, stanco di quel fatterello inesplicabile, avrebbe messo in un canto la bottiglia permettendo così che il futuro fosse determinato dalla tragedia, impercettibile o definitiva (questo in base al tempo che sarebbe trascorso prima della scoperta decisiva), che ne sarebbe derivata. In ogni caso, non sarebbe stato Hallam a salire come un turbine ai vertici della fama.
Invece, con quel “E tu come fai a saperlo?” che lo metteva con le spalle al muro, ad Hallam non restò che replicare di slancio: — Ti farò vedere io come lo so!
Dopo di che niente e nessuno gli avrebbero impedito di andare fino in fondo. L’analisi del metallo contenuto nella vecchia bottiglia diventò il suo scopo prioritario, e la sua meta principale quella di cancellare l’espressione di superiorità dalla faccia affilata di Denison e la perpetua smorfia sarcastica dalle sue labbra pallide.
Denison non dimenticò mai quella scena perché fu la sua replica che portò Hallam al Premio Nobel e lui stesso all’anonimato.
Non aveva modo di sapere (oppure, se lo avesse saputo, non gliene sarebbe importato) che Hallam possedeva un’enorme testardaggine, quel bisogno di proteggere il proprio orgoglio professionale che è dei mediocri insicuri, che lo avrebbe portato allo splendore della scoperta molto più facilmente che tutta la luce dell’ingegno di Denison.
Hallam agì subito e allo scoperto. Portò il suo metallo sconosciuto al reparto della spettrografia di massa, mossa naturale per un chimico delle radiazioni. Conosceva i tecnici di quel reparto, avendo già lavorato con loro, e sapeva come convincerli. Fu talmente convincente, in effetti, che la sua analisi passò avanti a incarichi ben più importanti.
Alla fine il tecnico addetto allo spettrografo disse: — Ecco, non è tungsteno.
La faccia larga e arcigna di Hallam s’increspò in un sorriso acido. — Bene. Lo diremo a Ingegno-brillante Denison. Voglio una relazione e…
— Un momento, dottor Hallam. Ho detto che non è tungsteno, ma questo non vuoi dire che io sappia cos’è.
— Come sarebbe che non sai cos’è?
— Voglio dire che i risultati sono ridicoli. — Il tecnico rifletté un momento. — Impossibili, anzi. Il rapporto carica-massa è tutto sbagliato.
— Tutto sbagliato in che senso?
— Troppo alto. Non può esistere, semplicemente.
— Be’, allora — disse Hallam e, indipendentemente dalle sue motivazioni, la frase successiva lo mise sulla via che portava al Premio Nobel (un premio meritato, si potrebbe persino aggiungere) — scopri la frequenza dei suoi raggi X caratteristici e calcola la carica nucleare. Non startene lì con le mani in mano a dire che qualcosa è impossibile.
Fu un tecnico sottosopra quello che entrò qualche giorno dopo nell’ufficio di Hallam.
Hallam ignorò il turbamento evidente sul viso dell’altro — non era mai stato un uomo sensibile — e cominciò: — Hai trovato… — A quel punto gettò un’occhiata incerta verso Denison, che sedeva alla sua scrivania nel suo ufficio, e andò a chiudere la porta. — Hai trovato la carica nucleare?
— Sì, ma è sbagliata.
— D’accordo, Tracy. Rifa’ i calcoli.
— Li ho rifatti almeno dieci volte. È sbagliata.
— Se l’hai misurata, è quella che è. Non serve discutere i fatti.
Tracy si strofinò un orecchio e disse: — Ho fatto quello che dovevo, dottore. E, se prendo sul serio i miei calcoli, quello che mi avete dato da analizzare è plutonio 186.
— Plutonio 186? Plutonio 186?
— La carica è +94. La massa 186.
— Ma è impossibile! Non c’è un isotopo del genere. Non può esistere.
— È quello che vi avevo detto io. Ma questi sono i risultati delle analisi.
— Ma, se le cose stanno così, al nucleo mancano più di cinquanta neutroni! Non si può ottenere del plutonio 186. Non si possono cacciare dentro a un nucleo novantaquattro protoni con solo novantadue neutroni e pretendere che restino insieme per più di un trilionesimo di trilionesimo di secondo.
— È quello che vi avevo detto io, dottore — ripeté Tracy, pazientemente.
A quel punto Hallam smise di pensare. Il metallo che era scomparso era tungsteno, e uno dei suoi isotopi, il tungsteno 186, era stabile. Il tungsteno 186 aveva nel nucleo 74 protoni e 112 neutroni. Possibile che qualcosa avesse trasformato venti neutroni in venti protoni? No, era impossibile.
— E ci sono tracce di radioattività? — chiese Hallam, cer. cando a tentoni la strada per uscire dal labirinto.
— Ci ho pensato anch’io — disse il tecnico. — Ma è stabile. Assolutamente stabile.
— Allora non può essere plutonio 186.
— È quello che continuo a dirvi, dottore.
Hallam concluse, senza più speranza: — Be’, dammi quella roba.
Rimasto solo, si mise a sedere fissando a occhi sbarrati la bottiglia. L’isotopo del plutonio più vicino a essere quasi stabile era il plutonio 240, dove erano necessari 146 neutroni per tenere uniti 94 protoni con una parvenza di stabilità, per di più parziale.
E adesso cos’avrebbe fatto? La faccenda gli aveva preso la mano, e lui rimpiangeva di averle dato il via. In fondo, lo aspettava il vero lavoro che gli avevano dato da svolgere e quella cosa — quel mistero — non c’entrava. Tracy doveva avere commesso qualche stupido errore, oppure lo spettrometro di massa non funzionava bene, oppure…
Be’, e con questo? Smettila di pensarci sopra e dimenticatene.
Ma Hallam non poteva comportarsi così. Prima o poi Denison sarebbe capitato lì da lui e con quel suo sorrisetto irritante gli avrebbe chiesto notizie del tungsteno. E lui cos’avrebbe risposto? Avrebbe risposto: “Non è tungsteno, proprio come ti avevo detto”.
E, di sicuro, Denison avrebbe chiesto: “E allora cos’è?”, e per niente al mondo lui si sarebbe esposto al tipo di ridicolo che avrebbe fatto seguito alla dichiarazione che quello era plutonio 186. Perciò, doveva scoprire cos’era e scoprirlo da sé. Ovviamente non poteva fidarsi di nessuno.
Così, un paio di settimane dopo entrava nel laboratorio di Tracy in uno stato che si può ben definire furia nera.
— Ehi, non mi avevi detto che quella roba non era radioattiva?
— Quale roba? — replicò automaticamente Tracy, prima di ricordare.