Il visore di Selene rifletteva la luce della Terra. — Barron dice che non provare nostalgia è naturale — disse — e che è segno di una mente sana. Secondo lui il corpo umano è fatto per vivere sulla superficie terrestre e ha bisogno di adattamenti per abituarsi alla Luna, mentre per il cervello la cosa è diversa. Quantitativamente, il cervello umano è così diverso da tutti gli altri cervelli che può essere considerato un fenomeno particolare. Non ha avuto il tempo di adeguarsi alla superficie terrestre e può, senza modifiche, adattarsi ad altri ambienti. Barron dice che la vita al chiuso nelle caverne lunari è probabilmente quella che meglio gli si addice perché esse non sono che una versione ingigantita della caverna cranica in cui è chiuso.
— Ne siete convinta anche voi? — domandò Denison divertito.
— Quando parla, Barron ha la facoltà di far sembrare tutto attendibile.
— Credo che si possa ritenere altrettanto attendibile sostenere che la comodità offerta dalle caverne lunari è il risultato del raggiungimento del desiderio di tornare nel grembo materno. Infatti — aggiunse pensoso — se consideriamo la temperatura e la pressione costanti, la natura e la digeribilità dei cibi, l’ambiente lunare non è altro che una deliberata ricostruzione dell’ambiente fetale.
— Non credo che Barron condividerebbe questa ipotesi — osservò lei.
— No di certo — confermò Denison osservando la Terra ai cui margini si distinguevano i lontani banchi di nuvole. Tacque e anche quando Selene si mosse per tornare al Pionizzatore, lui rimase immobile.
Guardava la Terra nel suo nido di stelle e l’orizzonte angusto, dove, a tratti, gli pareva di scorgere uno sbuffo di polvere nel punto in cui forse era caduta una piccola meteorite. La notte prima aveva indicato uno di quegli sbuffi di polvere a Selene con una certa preoccupazione. Ma lei aveva preso il fenomeno alla leggera.
— La Terra oscilla lievemente nel vuoto a causa della librazione della Luna — gli aveva spiegato — e a volte un raggio di luce terrestre colpisce un punto un po’ elevato, per poi riabbassarsi sul terreno sottostante. A vederlo, sembra un piccolo sbuffo di polvere. È un fenomeno comune, noi non ci badiamo.
— Però qualche volta può trattarsi di una meteorite — aveva obiettato lui. — Ma ne cadono?
— Sì, moltissime, ma la tuta vi protegge.
— Non alludo alle particelle microscopiche. Parlo di meteoriti di dimensioni tali da sollevare effettivamente la polvere. Meteoriti capaci di uccidere.
— Be’, ne cadono anche di quelle, ma poche, e la Luna è grande. Almeno finora, nessuno è stato colpito.
E mentre Denison osservava il cielo pensando a questo, vide una cosa che — forse proprio perché ci stava pensando — scambiò per una meteorite. Era una luce che striava il cielo, attraversandolo; ma avrebbe potuto trattarsi di una meteorite solo sulla Terra, con la sua atmosfera, e non sulla Luna che ne era priva.
La luce in cielo era opera dell’uomo, ma Denison non se ne era ancora reso conto appieno che già si era trasformata in un piccolo velivolo che scese velocemente accanto a lui.
Ne smontò una figura in tuta, mentre il pilota, a mala pena visibile tra la luce dei fari, restò a bordo.
Denison aspettava. L’etichetta, fra persone in tuta spaziale, voleva che a presentarsi fosse l’ultimo arrivato.
— Qui il commissario Gottstein — disse una voce.
— Qui Ben Denison.
— Già, lo supponevo.
— Siete venuto qui a cercarmi?
— Sì.
— Con un razzo? Ma avreste potuto…
— Avrei potuto servirmi dell’Uscita P-4 che dista meno di un chilometro da qui. È vero. Ma non cercavo solo voi.
— Be’, non voglio chiedervi chi o cosa cercate.
— Non ho motivi per nasconderlo. Certamente non vi parrà strano che mi interessino i vostri esperimenti sulla superficie lunare.
— Non hanno niente di segreto e chiunque ha il diritto di interessarsene.
— Però nessuno sa di cosa si tratta, oltre al fatto che sono in rapporto con la Pompa Elettronica.
— È un’ipotesi logica.
— Sì? A me pare che esperimenti di tale natura, per avere un valore qualsiasi, richiedano apparecchiature imponenti. Sono cose che mi hanno detto, perché io non sono un esperto in materia. Però è evidente che voi non disponete di un tal genere di apparecchiature. Allora mi è balenata l’idea che non dovrei concentrare il mio interesse su di voi. Forse, tentando di attirare la mia attenzione su di voi, qualcuno cerca di distraimi da altre cose che potrei notare.
— Perché dovrei servire da paravento?
— Lo ignoro. Se lo sapessi, sarei meno preoccupato.
— Quindi, sono stato messo sotto osservazione.
— Già — ammise ridacchiando Gottstein. — Fin dal vostro arrivo. Ma mentre voi lavorate qui in superficie, noi abbiamo tenuto d’occhio tutta questa zona per miglia e miglia in ogni direzione. È strano, ma sembra che in superficie ci siate solo voi due, occupati a far qualcosa che non sia un lavoro di routine.
— Strano, perché?
— Perché significa che voi pensate realmente di star facendo qualcosa con quel vostro trabiccolo che ignoro cosa sia. Non posso credere che siate un incompetente, perciò penso che valga la pena di ascoltarvi, se volete spiegarmi cosa state facendo.
— Faccio degli esperimenti di para-fisica, Commissario, proprio come dicono in giro. Alle voci che circolano, posso aggiungere che finora i miei esperimenti sono riusciti solo in parte.
— Suppongo che la vostra compagna sia Selene Lindstrom L., guida turistica.
— Sì.
— Strano tipo di assistente.
— È intelligente, pronta, interessata al mio lavoro, e molto carina.
— È disposta a lavorare con un Terrestre?
— Disposta a lavorare con un immigrante che diventerà cittadino lunare appena la sua domanda sarà accettata.
Selene stava avvicinandosi e la sua voce gli risuonò nelle orecchie.
— Buongiorno, Commissario. Mi spiace di aver ascoltato e di essermi intromessa in una conversazione privata, ma quando si è dentro a una tuta spaziale non si può far a meno di sentire tutto quello che viene detto entro il giro dell’orizzonte.
Gottstein si voltò. — Salve, signorina Lindstrom. Quello che ho detto non aveva niente di segreto. Vi interessa la para-fisica?
— Oh, sì!
— Vedo che la mancata riuscita degli esperimenti non vi ha scoraggiato.
— Non è esatto dire che non sono riusciti — rispose lei — anzi, lo sono molto più di quanto non creda il dottor Denison.
— Come? — Denison roteò sui tacchi rischiando di perdere l’equilibrio e sollevando una nuvoletta di polvere. Ora, tutti e tre stavano di fronte al Pionizzatore, al di sopra del quale — a circa un metro e mezzo d’altezza — brillava una luce simile a una grossa stella.
— Ho aumentato l’intensità del campo magnetico — spiegò Selene — e in principio il campo nucleare restava stabile, ma poi ha cominciato a cedere… a cedere…
— E si è fratturato! — esclamò Denison. — Accidenti, e io non l’ho visto!
— Mi spiace, Ben, ma prima eravate immerso nei vostri pensieri, e poi è arrivato il Commissario, e io non ho saputo resistere alla tentazione di provare da sola.
— Cos’è quella luce? — volle sapere Gottstein.
— Energia emessa spontaneamente da materia che trabocca da un altro universo nel nostro — spiegò Denison. Mentre parlava, la luce tremolò e si spense, e a distanza di parecchi metri ne comparve un’altra meno brillante.
Denison si slanciò verso il Pionizzatore, ma Selene, tutta grazia lunare, avanzò più rapidamente e arrivò per prima. Annullò la struttura del campo e la stella lontana si spense.