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Le traduzioni dall’etrusco, di per sé, erano prodigi di monotonia e di pochissima importanza storica: per la maggior parte si trattava di normali iscrizioni funerarie. Ma il fatto stesso della traduzione era strabiliante e, come risultò in seguito, si dimostrò importantissimo per Lamont.

Non subito, però. Per essere assolutamente sinceri, le traduzioni dall’etrusco erano una realtà quasi cinque anni prima che Lamont venisse a sapere che nell’antichità era esistito un popolo come gli Etruschi. Fu quando Bronowski giunse all’università per tenere una delle solite conferenze annuali ai docenti incaricati e Lamont, il quale normalmente si sottraeva al dovere di assistervi, fu presente a quella particolare conferenza.

Non lo fece perché ne conoscesse l’importanza o se ne sentisse interessato: lo fece perché aveva dato appuntamento a una laureanda della facoltà di Lingue Romanze e l’alternativa alla conferenza era una serata musicale che lui voleva evitare a tutti i costi. La relazione sociale con quella ragazza non era impegnativa; dal punto di vista di Lamont era, anzi, poco soddisfacente e del tutto transitoria, ma lo condusse alla conferenza.

Successe anche che ci si divertì. Per la prima volta la misteriosa civiltà etrusca colpì la sua intelligenza come qualcosa di blandamente notevole, mentre il problema di decifrare una lingua incomprensibile lo affascinò addirittura. Da ragazzo gli era sempre piaciuto risolvere crittogrammi, ma poi aveva messo da parte l’enigmistica, insieme a tutti gli altri giochi infantili, per dedicarsi ai crittogrammi ben più importanti posti dalla natura, tanto che era finito nella para-teoria.

Ma le parole di Bronowski lo riportarono ai lontani entusiasmi giovanili, di quando si riusciva a dare un senso compiuto a ciò che pareva una serie di simboli presi a casaccio, con l’aggiunta di difficoltà sufficienti a rendere il compito degno di lodi e onori. Bronowski era un esperto di crittogrammi su grandissima scala, e fu la descrizione di come l’intelligenza e la logica avessero lentamente avuto ragione del mistero quello che più attrasse Lamont.

Eppure sarebbe stato tutto inutile — la triplice coincidenza dell’apparizione di Bronowski all’università, l’interesse giovanile di Lamont per i crittogrammi e l’insistenza di una ragazza attraente a voler uscire — se proprio il giorno dopo Lamont non avesse avuto il suo colloquio con Hallam e non si fosse decisamente e definitivamente tirato, come scoprì in seguito, la zappa sui piedi.

Meno di un’ora dopo la conclusione del colloquio, Lamont decise di vedere Bronowski. Il motivo contingente era lo stesso che a lui era sembrato così ovvio mentre aveva offeso a morte Hallam. Poiché era stato la causa della sua condanna, si sentiva in dovere di reagire, restituendo ad Hallam la pariglia e proprio in merito al punto controverso. I para-uomini erano più intelligenti degli uomini. Fino a quel momento Lamont ne era stato convinto, ma senza annettervi eccessiva importanza, ritenendolo un fatto ovvio, non vitale. Adesso era diventato vitale: doveva trovarne la prova inconfutabile per ficcarla in gola ad Hallam. Possibilmente di traverso e con tutti gli spigoli più aguzzi all’esterno.

Ormai l’ammirazione provata fino a poco prima per il grand’uomo era talmente lontana da lui, che era deliziato dalla sola prospettiva di una rivincita.

Bronowski era ancora nel campus universitario e Lamont, dopo averlo rintracciato, insisté per parlargli.

Quando alla fine riuscì a incastrarlo, Bronowski si mostrò blandamente cortese.

Lamont mise subito da parte i convenevoli, si presentò seccamente e disse: — Dottor Bronowski, sono felice di avervi trovato prima che partiate. Spero, anzi, di convincervi a rimanere più a lungo.

— Potrebbe non essere difficile — replicò Bronowski. — Mi hanno offerto un incarico in facoltà.

— Lo accetterete?

— Ci sto pensando. Forse.

— Dovete accettarlo. Ve ne convincerete quando avrete ascoltato quello che ho da dirvi. Dottor Bronowski, che cosa vi resta da fare adesso che avete risolto il mistero delle iscrizioni etrusche?

— Non è quella la mia sola occupazione, giovanotto! — (Bronowski aveva cinque anni più di Lamont.) — Io sono un archeologo e, oltre alle iscrizioni, esiste una civiltà etrusca e, oltre agli Etruschi, esiste una civiltà italica preclassica.

— Ma sono sicuro che non esiste niente di altrettanto eccitante e stimolante delle iscrizioni etrusche.

— Questo è garantito.

— Perciò accettereste a braccia aperte qualcosa di ben più eccitante e più stimolante e un trilione di volte più importante delle iscrizioni etrusche?

— Cos’avete in mente, dottor… Lamont?

— Noi possediamo delle iscrizioni che non appartengono né a una civiltà morta né a una civiltà terrestre e nemmeno a una civiltà esistente in questo universo. Abbiamo qui qualcosa che chiamiamo para-simboli.

— Ne ho sentito parlare anch’io. Anzi, li ho visti.

— Quindi, di sicuro vi è venuta la voglia di risolvere il problema, vero, dottor Bronowski? Anche voi desiderate scoprire il loro significato?

— Per niente, dottor Lamont. Perché non esiste alcun problema da risolvere.

Lamont lo fissò con occhi sospettosi. — Volete dire che sapete leggerli?

Bronowski scosse la testa. — Mi avete frainteso. Voglio dire che io non posso leggerli e che non lo può nessun altro. Non esiste una base da cui partire. Nel caso delle lingue terrestri, per morte che siano, esiste sempre la possibilità di scoprire una lingua viva o una lingua morta già decifrata che abbia un rapporto, pur tenue, con quella in esame. E, in mancanza di questo rapporto, sussiste per lo meno il fatto che ogni lingua terrestre è stata scritta da esseri umani, che hanno un modo di pensare umano. Questo è un punto di partenza, per quanto labile. Ma il caso dei para-simboli è completamente diverso, tanto che essi costituiscono un problema che in tutta evidenza non ha soluzione. Un caso insolubile non è un problema.

Solo con difficoltà Lamont si era trattenuto dall’interromperlo. Adesso proruppe: — Vi sbagliate, dottor Bronowski. Non è che io voglia insegnarvi il vostro mestiere, ma voi non conoscete alcuni fatti che il mio mestiere ha reso evidenti. Noi abbiamo a che fare con para-uomini, relativamente ai quali non conosciamo quasi niente. Non sappiamo a cosa somigliano, qual è il loro modo di pensare, in che tipo di mondo vivono. Quasi niente, per quanto sia elementare e fondamentale. Su questo avete ragione.

— Ma questo è il quasi niente che conoscete, non è così? — Bronowski non sembrava impressionato. Tirò fuori di tasca un pacchetto di fichi secchi, lo aprì e se ne mise uno in bocca. Offrì il pacchetto a Lamont, che scosse la testa, rifiutando.

— Giusto — disse, invece. — Conosciamo una cosa d’importanza capitale. Loro sono più intelligenti di noi. Prova prima: possono eseguire lo scambio attraverso la breccia inter-universale, mentre noi svolgiamo solo un ruolo passivo. — S’interruppe, poi chiese: — Voi sapete qualcosa della Pompa Elettronica Inter-universale?

— Qualcosa — rispose Bronowski. — Abbastanza da seguirvi, dottore, se non vi addentrate in particolari troppo tecnici.

Lamont si affrettò a continuare: — Prova seconda: ci hanno mandato le istruzioni per costruire e montare la nostra parte della Pompa. Potevamo non capirne niente, ma eravamo in grado d’interpretare i loro disegni abbastanza bene da afferrarne i concetti principali. Prova terza: non so come, ma loro riescono a sentirci. Quanto meno, si accorgono quando gli lasciamo il tungsteno da scambiare, per esempio. Sanno dove si trova e possono agire su di esso, mentre noi non possiamo fare niente del genere. Vi sono altre prove, ma queste mi sembrano sufficienti a dimostrare che i para-uomini sono senz’altro più intelligenti di noi.